Servirà a qualcosa dare spazio a dettagli che apparentemente non c’entrano nulla con il romanzo?
- Rossella Pretto

- 30 giu
- Tempo di lettura: 4 min
È un sì categorico e convinto. Mi diverte studiare. Sta lì il piacere della scrittura, la scoperta.
Scoprire ciò che altri hanno già fatto e scritto e scoprire qualcosa dei personaggi che urgono, come nuovi.
Accennavo, la volta precedente, al rapporto di Williams con la Magnani. Ma prima, a volo, qualcosa su di lui.
Thomas Lanier Williams nasce nel 1911 nello stato del Mississipi, una cinquantina d’anni dopo la guerra di secessione americana che aveva visto vincitori gli ideali (e la potenza industriale) del Nord. Ma Williams, che proprio al Nord deve traslocare, ambienta nelle terre d’origine la maggior parte dei suoi lavori, là dove cova l’ispirazione potente, là dove è rimasto uno scampolo dell’innocenza che poi sarà violata.
Da bimbo viene colpito dalla difterite. Resta a letto per quasi due anni. Gli toccherà in sorte una delicatezza che il padre non mancherà di sottolineare con sprezzo. Lo chiama Miss Sissy.
A sette anni la famiglia si trasferisce a St. Louis, città razzista e classista. Tom e Rose, la sorella amata, si rifugiano nella fantasia per riuscire a tollerare la miseria di un’esistenza che li schiaccia.
Ma Rose cede e comincia a palesare disturbi psichici. Il padre si alcolizza, la madre si ammala. Tom guarda alla scrittura, si rintana lì. Un nido sul ciglio della strada che non abbandonerà più, nonostante gli esaurimenti nervosi, la scoperta dell’omosessualità, la promiscuità, il dolore per la condizione di Rose che subisce una delle prime lobotomie prefrontali per una presunta dementia praecox.
Sono gli anni degli studi e del teatro. Nel 1938 si firma per la prima volta Tennessee Williams. Si trasferisce a Chicago e a New Orleans, conosce il quartiere francese, ingaggia un’agente letteraria e inizia la sua avventura.
Viaggia, scrive, tra gli alti bassi dei successi e dei flop, arriva la buona stella dello Zoo di vetro, uno dei lavori più autobiografici. Conosce Frank Merlo, compagno insostituibile a cui dedicherà La rosa tatuata (quella della Magnani) e del quale ricorda: «Era così attaccato alla vita! Io non ero mai stato così attaccato. Lui mi diede il legame alla vita da vivere giorno per giorno e notte per notte».
Nel 1947 debutta Un tram che si chiama desiderio. Grazie a Elia Kazan, regista dello spettacolo e poi del film, incontra Marlon Brando. Il regista gli chiede di provinare un giovane sconosciuto ma talentuoso e gli preannuncia il suo arrivo. Brando compare però tre giorni dopo perché, invece di prendere l’autobus, lo raggiunge in autostop, dopodiché gli ripara impianto elettrico e idraulico e, infine, si dispone a fare il provino.
Tennessee non se lo lascia scappare. Per quel testo vince il Premio Pulitzer per il teatro. La giovinezza di Brando gli permette di non attribuire colpe, di non giudicare i suoi personaggi. Scrive all’agente: «Il personaggio di Stanley ne risulta umanizzato poiché, in questo modo, verranno evidenziate le brutalità e la durezza della gioventù piuttosto che la depravazione di un uomo più maturo. Non desidero che la colpa e il biasimo convergano tutti su un personaggio in particolare; deve essere invece intesa come una tragedia dell’incomprensione e dell’insensibilità verso gli altri». Un buon consiglio, sempre, quello di non far prendere ai propri personaggi pieghe ideologiche, non dar loro un corpo a sole due dimensioni, di carta, disumanizzandoli, patinandoli. L’essere umano è irrisolto, sempre, è pieno di fragilità che tenta di nascondere, ma non gli riesce. Il compito del drammaturgo, quello dello scrittore è di mostrarle, quelle defaillance, di usare il giusto grado di
violenza perché emergano. Perché l’uomo ne sia retroilluminato.
Il successo aiuta Tennessee Williams e non lo aiuta. Ma di più, forse, non lo aiuta. Lo soffoca, lo mette sotto pressione. Quell’ansia deve essere compensata e calmierata da alcol e droghe. Scrive in una pagina delle sue memorie: «un artista è condannato a morire due volte… la morte fisica e quella creativa». La scrittura però è più forte, prosegue. Sono tutti lavori iconici, che rimangono nella memoria.
Stringe amicizia e sodalizi con grandi scrittori e registi, Carson Mc Cullers, Thornton Wilder, Jean Cocteau, Luchino Visconti, Gore Vidal, Paul Bowles.
È spesso in Italia, sua patria d’elezione, a Roma, dove ambienta il romanzo La primavera romana della signora Stone. La sua vita è tempestosa ma non l’abbandona il credo che informa la missione di scrittore: la bontà, la tenerezza. Hannah ne La notte dell’iguana dice che il problema più antico che ci sia è il bisogno di credere in qualcosa, e continua, «e questo qualcosa potrebbe essere il rompere le barriere tra le persone, in modo che possano raggiungersi, fosse pure solo per una notte soltanto». È qui il cuore della sua opera, il nucleo più toccante e intimamente vero, è questo che spera anche per sé nel buio che lo accerchia e lo stringe nella sua morsa. Williams precipita nell’abisso dello stordimento, chimico, in quello interiore della psicanalisi. Truman Capote lo descrive come un uomo infelice, anche nell’apparenza del sorriso. Scrive: «Sta di fatto - almeno per
me – che Blanche e il suo creatore erano intercambiabili, condividevano la stessa sensibilità, la stessa insicurezza, la stessa malinconica lussuria. E a un tratto, mentre tu pensavi questo, e lo guardavi inchinarsi agli scroscianti battimani, lui pareva arretrare verso il fondo della scena, per sparire in dissolvenza, guidato per mano dallo stesso dottore che accompagna Blanche Dubois verso indesiderate, inospitali ombre».
Tennessee perde gli affetti più importanti, tra cui l’amato Merlo. Il successo lo ghermisce e lui appunto arretra, perde terreno. Verrà ricoverato per tre mesi nell’ospedale psichiatrico del Barnes Hospital di St. Louis.
Poi esce e non si ferma più, la frenesia non lo lascia perché, come scrittore, è in ricerca ininterrotta: «Io cerco sempre di dire la verità e la verità non la posso trovare, la cerco sempre e continuo a cercarla».
Forse la sta ancora cercando quando lascia il corpo e questo mondo, nel 1983.
La sua ricerca passa ad altri. È necessaria. Per me, e mi guida verso il punto di incandescenza dove l’essere umano si denuda e arde. Non mi è facile. È la cosa più complessa per chi usa la testa come grimaldello.
Solo per mettere in fila qualche parola senza però aver ancora onorato la promessa di parlare di Williams e della Magnani.
La prossima non mancherò.

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