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È ancora possibile la poesia, Poetry Nobel Lectures

Non è una merce.
La poesia non è una merce e non può essere assoggettata alle leggi del mercato.
Lo sanno e lo notificano variamente tutti i poeti celebrati col massimo riconoscimento - il Premio Nobel per la Letteratura – e i cui discorsi sono raccolti nel volume È ancora possibile la poesia, Poetry Nobel Lectures (introduzione di Roberto Galaverni, Vallecchi 2025, pp. 320, euro 18). Il titolo è preso a prestito dal discorso di Eugenio Montale del 1975 che denuncia la deriva spettacolare delle arti. 
Non è una merce, la poesia, è un modo di conoscere il mondo e conoscersi come esseri umani. Il luogo della presenza, per Octavio Paz, e in qualche modo lo è anche per Derek Walcott, presenza che richiede fede. Un patto, anche, quello di Louise Glück, tra eletti, qualcosa di essenziale e privato; un tête-à- tête, per Iosif Brodskij, rifiutato dai campioni del bene comune e da chi la voglia ridurre in proprio potere. L’arte, per il poeta russo costretto all’esilio, «prevede, ogni volta, la creazione di una nuova realtà estetica» – può far sorgere e assistere alla creazione di una nuova cultura, come quella antillana di Walcott: «l’arte antillana è questa riparazione delle nostre storie in frantumi» – essendo quella estetica una realtà che rende più specifica l’etica di una persona.
Questo ha a che fare con la verità, l’impegno verso la verità, che garantisce una caratteristica indifferibile all’opera letteraria: costringere il lettore al solo ruolo attivo di interprete. È una conversazione, quella con il lettore, estremamente privata. 
Ma cosa succede nel momento in cui si voglia riflettere sui diritti della verità e dell’immaginazione? Quale la sorte della messinscena, si chiede Wole Soyinka, poeta, scrittore e drammaturgo nigeriano? Se per Xingjian, i dibattiti sugli orientamenti ideologici e politici dell’arte e del singolo poeta hanno avvelenato il secolo scorso concedendo allo scrittore le due sole vie praticabili del silenzio e dell’esilio, allora, ascoltando la voce di Soyinka, ci si domanda se vi è un dovere di intervento da parte del poeta nella realtà, nella storia. Esemplari sono il suo discorso e quello di Seamus Heaney, accerchiato, quest’ultimo, dalle richieste pressanti di prendere posizione sulla contemporaneità e, nello specifico, sui fatti sanguinari nordirlandesi dei Troubles. 
Il dovere più urgente è sempre quello verso la sincerità. È così che la sfida nei confronti della società viene incarnata (per Xingjian), nell’opera più che nella biografia del poeta, è così che si fa puro il verbo (per Heaney). La letteratura mira a disvelare, scrive Xingjian, e prosegue Brodskji: i tre modi della conoscenza, utilizzati tutti dalla poesia, sono quelli dell’analisi, dell’intuizione e della rivelazione. «Comporre versi è un poderoso acceleratore della coscienza, del pensiero, della percezione del mondo». Anche Miłosz ammette lo scarto problematico tra essere e agire (la sua domanda di realtà è la stessa di Ponzio Pilato sulla verità): «si può abbracciare la realtà così da conservarla in tutto il suo eterno aggrovigliarsi di male e bene, di disperazione e di speranza, solo grazie alla distanza, solo innalzandosi al di sopra di essa. Ma ciò sembra a sua volta un tradimento morale. Questa era la contraddizione risalente al nocciolo stesso dei conflitti del XX secolo, scoperta dai poeti nella terra contaminata dal crimine del genocidio». 
Preoccupa il rifiuto della memoria e la rottura dei legami tra comunità (la catena umana heaneiana), anche quelli interni alla comunità poetica che tramanda e passa un’eredità. Un noi che stringe le mani, pure dei compagni di generazione di Vicente Aleixandre, dei maestri di Miłosz e dei cospiratori di Glück. Una tradizione che cerca il suo presente, non il solo canto nostalgico del passato. «Forse non c’è altra memoria che quella delle ferite», scrive Miłosz, che sapeva bene la necessità dello sguardo sul presente e di testimoniare la vulnerabilità di un’epoca, soprattutto nell’opposizione al mondo sovietico, ma mantenendo una sorta di postura eretica nella condizione scissa dell’intellettuale. 
Tornando a Xingjian, il confronto con la verità, lo scavo a cui deve piegarsi, non riguarda solo una questione di metodo, riguarda profondamente l’atteggiamento con cui si scrive. Ancora una volta viene in luce quel bisogno di sincerità che oltrepassa le barriere linguistiche, geografiche, culturali, temporali. La poesia trova il suo lettore anche a distanza di secoli, come sapeva e scriveva Pessoa nei Dialoghi esoterici
Ma quand’è che un’opera è sincera? 
Quando, essendo privata e molto intima, descrive qualcosa di riconoscibile e universale – viene in mente per la recente lettura il libro di Laurent Mauvignier, Storia di un oblio: lì nulla può essere tacciato di finzione, di posa, di essere ornamentale perché ogni parola è scomoda e denuncia il mostro che appartiene a tutti, per cui si può ammazzare un uomo solo per aver rubato una lattina di birra. Così le drammaturgie di Soyinka, incarcerato e costretto all’esilio negli Stati Uniti per molti anni. La sua domanda, lui che scrive la sua Lecture quando ancora è in vigore il regime dell’Apartheid (vinse il Nobel nel 1986, Mandela fu liberato nel 1990), la sua domanda a proposito della minaccia della messinscena nei confronti della realtà ha lo stesso tono perentorio di testimonianza – e nel discorso cita casi, esempi e atrocità inaccettabili come quello di Hola Camp, in Kenya: c’è un gran bisogno di testimoniare e di incontrare l’altro, di vederlo nella sua irriducibile natura di fratello che porta qualcosa in dono: «È il mondo europea ad aver cercato, con il massimo zelo, di ridefinire sé stesso attraverso questi incontri, persino quando sembrava che si stesse sforzando di conferire significato a un’esperienza del mondo africano», e cita l’Espressionismo europeo. 
Sembra insomma che i poeti chiamati al podio della più alta onorificenza lo facciano con un misto di gratitudine e di responsabilità, come passassero per le forche caudine, scrive Roberto Galaverni, che introduce il volume, sceglie la data del 1975 (anno della morte di Pasolini) per riunire i discorsi dei poeti, e dispiega una sorta di road map delle questioni più stringenti, mostrando anche la loro intima corrispondenza, il loro richiamarsi e modularsi a volo d’uccello e dimostrando come la legittimità della poesia emerga forte dalle loro parole, quasi come una vena d’acqua dalla roccia delle nostre waste lands o dal corpo martoriato di un poeta che non ha smesso di venirci in sogno, la sua testa di Orfeo che non smette di cantare.

Rossella Pretto

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