SCRIVO PER RIVIVERE

Dialoghi con i classici nel Novecento americano, a cura di Caterina Ricciardi
Bisogna tornare al centro per trovare e conoscere sé stessi, all’omphalos della Grecia e del cosmo situato a Delfi, sul cui santuario campeggiava la celebre massima. Un tempio più volte ricostruito, narra Pausania nella sua Periegenesi della Grecia, alludendo non solo ai rivolgimenti storici ma, simbolicamente, al divenire dell’origine, perduta e riedificata dall’uomo che ricerca e, ricercando oscuramente, viaggia per accedere all’archivio delle immagini essenziali, acquistando così compito e funzione. Pausania quel viaggio lo compì all’interno della propria terra. C’è chi, per rispondere a un bisogno identitario, getta fondazioni dall’interno e chi sceglie di partire e abbandonare tutto. In entrambi i casi si creano i presupposti perché lo sguardo, dal profondo, possa rialzarsi echeggiando il futuro, accogliendo e mettendo in dialogo nuove e antiche istanze poetiche. Così faceva l’esordiente Seamus Heaney in ‘Elicona personale’: fin da bambino, «Narciso dai grandi occhi», adorava la discesa nel buio dei pozzi, per trarne poi, in età adulta, consolidante rima: «I rhyme/ to see myself, to set the darkness echoing». È nota l’importanza del lavoro di vanga per Heaney. Altro tipo di scavo è quello implicato da Derek Walcott, caro amico del poeta nordirlandese, tra gli autori proposti nel volume di Dialoghi con i classici nel Novecento americano curato da Caterina Ricciardi per le Edizioni di Storia e Letteratura (2019, pp. XVIII- 142, euro 14). Scavo e contaminazione, quelli di Walcott, che attinge a Omero (e Ovidio) per mescolarlo al «dialetto della tribù», dimostrando «una volontà di legittimazione poetica di una contro-conquista imperiale», quella della sua «anti-epopea creola», scrive Viola Papetti nell’evocativo saggio che restituisce, con pennellate da memoir di viaggio, pure l’incontro con lo scrittore avvenuto nel 1997 a St. Lucia. Finendo con la visione post-colonialista di un poeta che rinomina le cose con l’affilato strumento della metafora per decretare l’alba di una nuova cultura non timida né derivata, il volume passa in rassegna il secolo americano dipanando il fil rouge degli antichi, declinandoli secondo gli urgenti dettami dell’autorealizzazione femminile e del suo infinito potenziale o di una ricerca delle radici quale base per la coscienza storica di una nazione stretta, dalla seconda metà dell’Ottocento, tra materialismo affaristico e mai sopito Puritanesimo, e interrogantesi sull’utilità moralizzatrice dei classici.
Da quel milieu prese il volo Natalie Clifford Barney, tratteggiata nel saggio di Giulia Napoleone. Barney, guardando a Saffo e al thiasos, contrappose all’Académie Française una Académie des femmes e idealmente restituì patria letteraria alle menti eccellenti di un’enclave cosmopolita, attraendole per sessant’anni nel salotto parigino affacciato sul suo Tempio dell’Amicizia eretto in giardino. Così la Grecia antica fornì a Barney, in fuga da un paese asfittico, l’antidoto per svincolarsi dai residui puritani del padre e per ricercare una scrittura al femminile che realizzasse il binomio vita-arte perseguito attraverso la libera espressione della sessualità. Saffo è presente anche nello studio di Caterina Ricciardi sulla «Driade» poundiana Hilda Doolittle, nei cui scritti diventa maschera sotto cui nascondere un’identità sessuale, discendenza genealogica al femminile, ma anche palinsesto da restaurare e integrare. Hymen (1921), composto dopo un viaggio in Grecia, si configura come un falso epitalamio adagiato sulla forma del masque che, grazie al coro polifonico di figure mitologiche, mette in dubbio l’istituzione matrimoniale modulando «una coraggiosa proposta anti-eterosessuale». Attraverso il linguaggio floreale, Doolittle riadatta la fabula delle fonti. Nel caso di Leda, giglio screziato d’oro, affida alla simbologia dell’iris (fiore che i greci piantavano sulle tombe) il compito di veicolare il messaggio funereo sotteso a quella che sembra più una pastorale che un episodio di stupro, come in Yeats. Doolittle interviene anche sui colori e trasforma Zeus in cigno rosso dalle zampe di corallo, suggerendo la passione che travolge e lascia a terra il giglio spampinato: «dove il cariceto s’infittisce,/ l’emerocallide dorato/ si spampina e giace/ sotto il soffice frullare/ delle ali del cigno rosso/ e il caldo fremito/ del suo rosso petto» (traduzione di Ricciardi apparsa su «Poesia» del maggio scorso).
Sara Antonelli analizza il racconto di F.Scott Fitzgerald, Six of One—, per dimostrare i giri di boa generazionali che lo scrittore provò a mettere in luce, accostando l’Età del Jazz a quella di Pericle, la splendida Atene del V secolo a.C. Fitzgerald però lo scrisse un decennio dopo, già ben conscio della crisi che stava investendo l’America degli anni ‘30. I fregi del Partenone, alla fine del racconto, sono solo graffi; i valori che Roosevelt aveva esaltato non reggono più, e il football non è sufficiente a garantire la salute della nazione; come non lo è, più di trent’anni dopo, ne La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams. Tanto cinema americano ha fatto del machismo uno stereotipo cui gli attori dovettero sottomettersi, pagandone lo scotto (si veda la vicenda di Rock Hudson). Il football non manca poi in Morte di un commesso viaggiatore (1949), tra le pièces più famose di Arthur Miller, che viene invece posta sotto la lente del satiresco (unico dramma pervenutoci per intero: Il ciclope di Euripide) da Maria Anita Stefanelli, che ne rintraccia l’antecedente di genere in O’Neill. Stefanelli, dialogando con l’elemento ritmico del teatro di Dioniso, mette a fuoco anche il carattere sinfonico del dramma, facendo un parallelo con Mozart. E se alla fine conclude che la commistione di tragico e comico è avvicinabile al trattamento riservato a Socrate nel Simposio platonico, si può anche osservare che di quella miscela esplosiva Miller aveva un esempio vivente in colei che, seppur anni dopo, divenne sua moglie (ma che all’epoca conosceva già): Marylin Monroe, la protetta di Lee Strasberg, conoscitore dell’inseparabile verità degli opposti poli di comico e drammatico. Dalla Monroe rimase colpita anche Karen Blixen che, durante una cena a casa di Carson McCullers, la trovò intrisa di incredibile innocenza e intensità infinita: si racconta che ballò con la diva sul tavolo di marmo.
Tornando al classico per concludere la panoramica sul Novecento americano offerta dalla raccolta di saggi, John Paul Russo indaga la poetica di quegli emigrati che guardano alle sponde mediterranee per sanare ferite da outsider, secondo un’ottica di riappropriazione passante attraverso lo strumento del viaggio e della catabasi, sia essa virgiliana o senechiana, purché riconduca a casa, come nel caso di Pier Giorgio Di Cicco, Dana Gioia e Mary Di Michele. Il volume, insomma, pone il classico, la sua ricezione e la riscrittura che ne deriva, come continuum e punto di frattura, inserendosi nel filone di studi che ne testa la vitalità. Perché, come afferma Derek Walcott, «quel che è nuovo di un classico è che si mantiene nuovo». Tautologico, ma profondo come il conosci te stesso di Delfi.
Rossella Pretto