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John Williams, Opere

«Non siamo che reliquie / di un passato infranto», scrive John Williams in una delle sue poesie più belle, quella che un vecchio attore dedica al suo pubblico, come un novello Prospero che chiede indulgenza spezzando la bacchetta magica. 
Ciò che rimane, per alcuni, è la scoria di un tempo spezzato, incancrenito, la coda della cometa che pareva splendida ed è finita in cenere; come cenere è l’universo in “Paesaggio marino con figura”, lì dove individuo e ambiente collidono senza quasi mai apparentarsi. È un tentativo di senso, quell’accostamento, una ipotesi; anzi, varie ipotesi che possano cogliere almeno il frammento. 
«Cominciamo così», dice Williams, e descrive il paesaggio, quella sua oggettività estranea che si alimenta di paradossi e contrasti: un litorale primaverile, ma anemico, il mare che lo rode, «il gelo nel fuoco a mezzogiorno» - sembra una poesia, lo è, una poesia che aspetta la sua frase a effetto: l’essere umano, o meglio, la donna, la bionda venere in bikini rosso, un punto esploso nel sole esangue, elemento fuor di sesto nel cosmo annichilito. Lei sola che possa restituire luce alle cose, assorbendola e riconsegnandola, perché i colori gareggino per l’armonia e il silenzio - «quasi potessero sottrarsi a quella messa in scena / e farsi nuova trasparenza nel pensiero». 
La carne trema e resiste, risplende e definisce, invitando il movimento – e dunque la vita, la chance dell’esistenza. Motore e carburante di uno spazio inerte che lei, dea procace, accende e a cui ritorna come indistinto, ogni volta individuata e informe: «La sabbia splende dove lei / cammina, s’afferra come luce alla sua carne viva». È così che avanza e costringe il mare a schiodarsi dalla sua apnea per inchinarsi a lei. 
Sono poesie tratte da La necessaria menzogna, una delle due sillogi in cui sono riunite le composizioni di Williams (l’altra è Il paesaggio infranto) nel Meridiano Mondadori (Opere, 2024, pp. 1560, 80 euro) dedicato all’autore americano, con l’ottima e molto chiara introduzione di Francesco Pacifico (incisa col diamante, alla Wyatt). Charles J. Shields cura cronologia, note e bibliografia. Le poesie sono tradotte da Stefano Tummolini, così come i racconti, i frammenti del romanzo incompiuto Il sonno della ragione e il capolavoro Stoner. 
Ecco, Stoner… l’uomo qualunque, il perdente, l’anonimo che quasi non si stacca dalla tela di fondo, quello con cui un vasto pubblico si è in qualche modo identificato e ha empatizzato, colui che è riuscito nella sua medietà a farsi protagonista, a prendere il primo piano nel cuore e nel ricordo dei lettori. Ma solo lì, non nella vita, quella che gli appartiene. A meno che artefice del proprio destino sia anche colui che si accomoda sul fondo del lago tranquillo di un’esistenza grigia. Una scelta, certo. La scelta di William Stoner.
Stoner il senza qualità, il pusillanime che non va in guerra ma si trincera tra le mura dell’università perché, come gli dice l’amico Masters (che invece in guerra ci va e ci muore), lui è «il sognatore, il folle in un mondo ancora più folle di lui, il nostro Don Chisciotte del Midwest, che vaga sotto il cielo azzurro senza Sancho Panza», quello che non ha posto nella società. Stoner e i suoi amici/colleghi (che sono troppo e troppo poco per il mondo là fuori) hanno avuto in sorte un rifugio: l’istituzione universitaria, costruita per loro, i diseredati. «Non facciamo del male a nessuno, diciamo quello che vogliamo, e addirittura ci pagano per farlo. Questo è un trionfo della virtù naturale, dannazione. O poco ci manca», esclama Masters. 
Eredità ed estinzione (verrebbe da pensare citando il titolo della raccolta poetica di Giovanna Frene) hanno grande parte in questo discorso, perché nella decisione che Stoner prende è implicata una ragione di civiltà sintetizzata forse nelle parole del professor Archer Sloane: «Deve ricordare chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo. Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia. Se ne ricordi, al momento di fare la sua scelta». 
Questo perché la guerra uccide qualcosa all’interno degli individui, qualcosa che non si potrà ricostruire. 
Stoner decide. 
E decide per sempre, decide di non guerreggiare. Mai. Né con la moglie né con la figlia, nemmeno per il suo posto di lavoro o per l’amante che dovrà lasciar andare, a cui dovrà rinunciare. Rinunciare a tutto, piegare il capo diventando quell’asino che non protesta neanche sotto i colpi del bastone. 
È così che scopre l’essenza dell’amore, presente in ogni sua azione e parola, e a tutti donato, una coperta nel vaso scintillante delle storie. L’apprendistato alla vita, di cui parla Pacifico nella sua introduzione, si trasforma in preparazione alla morte e in conoscenza. La sospensione lucente di quegli attimi di grazia che preludono alla morte di Stoner gli rendono chiara la sua identità. È in quell’istante che le dita cercano e trovano il libro che ha scritto, la sua presenza nel mondo attraverso le parole. È lì che avviene la fusione con il creato. 
La luce, quindi, prende possesso della scena avvampando mentre il libro cade nel silenzio della stanza. Ancora quella luce che è fiammella di conoscenza, come quella concretata da un capolavoro scolpito da Francesco Queirolo nella napoletana Cappella Sansevero, il Disinganno, dove il genio che la porta in fronte libera l’uomo dalla rete del dubbio e dell’impotenza, dalla finitudine insensata che confina col nulla. 
Scrive Williams: 
Ma nell’istante in cui si preparava ad arrendersi
nella sua testa in fiamme dirompeva
l’esortazione a completare il cerchio
e a procedere dal nulla
al tutto, fino a tornare come gli altri
viaggiatori in terra alla bianca
immota circostanza del suo bel piacere
nella radura in mezzo alla foresta.
Con questo “Presagio d’insolazione”, poesia de Il paesaggio infranto, Williams si testimonia nell’acribia intellettuale che rende giustizia al senso e fa della carne il vate del pathei mathos, la sua illuminata prova di conoscenza terrena. 


Rossella Pretto

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