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Seamus Heaney, Sweeney

È una parabola, il volo di Sweeney: metamorfosi e caduta; e un vagare continuo, senza posa, in cui ammirare la struggente dolcezza della natura, accasandosi tra le fronde degli alberi a masticare crescione, ma anche sentire la ferita e il martirio che quegli stessi elementi possono provocare. Nient’altro è concesso all’irlandese re di Dal-Arie che, in un accesso di rabbia, colpisce Ronan Finn, il chierico venuto a fondare una chiesa sul suo territorio. Ronan lo maledice e lo condanna all’esilio, prefigurandolo in forma di uccello: «la fantasia letteraria che si è coagulata intorno alla sua immagine è chiaramente da ascrivere alla tensione tra la più recente e dominante morale cristiana e il più antico e resistente temperamento celtico», scrive Seamus Heaney nell’Introduzione al volume italiano curato da Marco Sonzogni (Sweeney smarrito, Archinto, 2019, pp. 252, euro 16). È una metafora del mutamento che tocca in sorte a tutti, in un modo o nell’altro, ma è sofferto soprattutto da chi deve essere accecato (in questo caso dal furore e dalla violenza) e girare nudo come un verme, o rivestito solo da qualche piuma, per poter meglio vedere, e poi cantare, la danza infinita del mondo, il suo mistero: accettando la dislocazione perpetua dello sguardo e testando al contempo la resistenza della rabbia che recide i rapporti e travolge la vita e la pace delle persone, il destino dei popoli. Non c’è tregua per chi è costretto a migrare dalla propria terra, a farsi straniero e perseguitato. «Pensa ai miei timori,/ al mio atterraggio/ dove la volpe ancora/ rode le ossa,// la mia folle corsa/ mentre il lupo dal bosco/ carica famelico/ e io mi arrampico sulla montagna,// eco di volpi che guaiolano/ giù nella valle/ e lupi alle mie spalle/ che ululano e sbranano-// le lingue emanano vapore,/ il passo controllato/ si dilegua come un incubo/ ai piedi del pendio». Come non c’è tregua per chi scelga la via della testimonianza attraverso la parola poetica che, apparentemente, non consegni, belli e pronti, un messaggio o una presa di posizione chiari, immediatamente riconoscibili. È il destino di Seamus Heaney che, come Sweeney (con cui rima), sceglie di abbandonare l’Irlanda del Nord e diventare anch’egli esule. «Una scelta che Heaney ha sempre detto di avere preso esclusivamente per ragioni di vocazione letteraria e di integrità creativa. A certe persone da un lato e dall’altro del confine tra le due Irlande, tuttavia, era invece sembrata di comodo: per non schierarsi e per lasciarsi alle spalle, almeno in parte, le sempre più frequenti e drammatiche tensioni tra cattolici e protestanti che sarebbero rapidamente degenerate in quello che è passato alla storia come uno dei periodi più bui dell’isola: i Troubles», scrive Sonzogni nella Nota del curatore.

 

È dal cottage di Wicklow che il poeta ascolta il lamento di Sweeney e comincia a tradurre il poema, quello che circolava in testi di vario tipo già dall’VIII-IX secolo e a cui egli si dedica per un lasso di tempo abbastanza lungo (una decina d’anni) da permettergli di accordare l’orecchio ai suoni della tradizione medievale. Un ritiro dunque ponderato che lo farà poi riconoscere come una delle voci critiche più importanti, tanto che il Nobel per la Letteratura, assegnatogli nel 1995, recherà traccia di quella «profondità etica» per cui fu scelto. Eremitismo e pacifismo, i suoi vessilli.

 

È un viaggio solitario e crudele, quello che deve compiere Sweeney, che dà altresì conto di alcuni folgoranti e intimi ripiegamenti: «Nel fiore degli anni, in groppa a un destriero,/ tutto quanto dominavo altero:/ ora il ricordo è un cavallo ribelle/ che s’impenna e mi sbalza di sella». Dopo una vita spesa a vagare di albero in albero, di terra in terra, questo rimane: di poter gettare uno sguardo sfuggente alla natura e di potersi dire ancora, almeno per un breve tratto, parte del gioco del tutto, nonostante lo spaesamento e il tremore che il viaggio nella memoria comporta. Che è anche viaggio nella parola originale e tradotta, quella di Sweeney ripresa da Heaney e quella accolta e nuovamente modellata dal team che Marco Sonzogni mette insieme coordinando questo splendido lavoro corale (la voce di Sweeney è affidata alla penna di Leonardo Guzzo).

 

La promessa che Sonzogni ha fatto a Heaney è stata rispettata e ora noi possiamo godere di questa parabola in traduzione italiana e fare un passo in avanti verso la consapevolezza che la poesia è inclusività, che non semplifica il reale, anzi, gli rende giustizia attraverso la complessità degli echi che rimanda: così, scrive Sonzogni, «ho deciso di creare una catena umana di amanuensi che insieme a me, “occhi negli occhi, uno-due uno-due”, seguissero Sweeney e lo accompagnassero dall’Irlanda alla penisola italiana». Perché quel «cervo pauroso/ bersagliato da Ronan Finn», quell’uomo dai «piedi rotti, il viso smunto,/ da un gran vento sferzato,/ e nella mente misero» possa insegnarci qualcosa sulle conseguenze dell’odio e della violenza.

 

 

Rossella Pretto

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