SCRIVO PER RIVIVERE

Seamus Heaney, Fieldwork
È un amore deliberato, quello che nutre Seamus Heaney per la sua terra, e di cui restituisce al lettore i frutti del suo lavoro sul campo nella splendida quinta raccolta del 1979, Fieldwork, ora in una gustosa, brillante traduzione italiana curata da Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo per le Edizioni Biblion (2020, pp. 148, euro 15), che va a rielaborare e arricchire l’opera compiuta da Sonzogni per il Meridiano Mondadori. Amore per l’Irlanda, pur travagliata dai Troubles, amore per la gente che la abita, per la moglie e infine per la poesia. Una passione tattile o un gusto che va assaporato nel doppio pasto che apre e chiude questi versi: dalle ostriche come «Pleiadi salate» al desco di Ugolino, nella traduzione dal dantesco Inferno XXXII-XXXIII.
Dopo la stagione dell’impegno civile, Heaney decide di ritirarsi a sud di Dublino per fornire alla famiglia un nido in cui ricominciare. La meta scelta è la contea di Wicklow, nella pace del cottage di Glanmore. È una fuga? Qualcuno lo accuserà di questo. Ma Heaney non abbandona la scena insanguinata di Belfast per vigliaccheria; lo fa per permettere al verbo di acquisire purezza e allo sguardo di riprendere vigore dimodoché i versi volino ancora e ancor più alti. In questo locus amoenus Heaney cerca il modo per difendere la poesia, vorrebbe arretrare nella sua «casa-albero» e rannicchiarsi «dove gemme minuscole sbocciano e fioriscono in pace». Ma c’è un presagio di sangue sui forconi, nulla è sereno fino in fondo e all’orizzonte della mente si profila l’incubo dei morti senza senso, «la musica che vacilla. Dentro e fuori, / è tempo da bimbi nel bosco». I nostri sensi, tutti, vengono sollecitati, a maggior ragione dalle immagini seducenti della moglie Marie, cantata nei ‘Sonetti di Glanmore’, «Jessica e Lorenzo dentro un clima ostile», il sogno dentro al sogno della prima notte in un albergo, quando – scrive Heaney – «venisti col tuo bacio deliberato / a innalzarci verso i graziosi, i dolenti / patti della carne». Marie è esaltata anche grazie all’accostamento agli animali: la lontra, la puzzola e la rondine. Si respira un’aura di sensualità e di armonia, nonostante i litigi e gli screzi che costellano la vita di coppia, ma che preludono comunque alla riappacificazione, all’abbraccio che riscatta il suo polder. Un piccolo e delicato universo da proteggere sempre, quello dell’unione coniugale, celebrata poi, come in un rito, in ‘Lavoro sul campo’.
Se questo non bastasse a farci venire voglia di leggere Fieldwork, potremmo anche seguire il poeta nelle sue escursioni, usandone la voce come guida per inoltrarci ‘Sul ciglio dell’acqua’, dove Heaney ascolta «un beccaccino / e poi il custode recitare elegie / sotto la torre. Teste scolpite di monaci / si sbriciolavano come il pane in acqua». È questa la regione dei laghi del Fermanagh. Una passeggiata intorno al sito monastico di Devenish sarà come un viaggio nel tempo, dalle origini dell'isola con la St Molaise House del VI secolo, attraverso le scorribande vichinghe del 837 fino all'incendio che la distrusse nel 1137, per poi risorgere nel Medioevo come chiesa parrocchiale. Boa, invece, è una delle più inquietanti delle 154 isole del Lough Erne. Ospita la curiosa figura di Giano, una pietra intagliata dai celti, «occhi di nume, bocca di sesso, / incassata tra le tombe, bifronte, intaccata». Heaney però non si accontenta di descrivere un lembo di terra, inesausto viaggiatore ce ne lascia intravedere ampi scorci, da Brandon a Dunseverick, passando per Toome, con i suoi «silos, cancelli di ferro, ardesie umide, verdi e rossi / sui tetti dei rustici»; portandoci sulla riva di Lough Beg, «la guglia di Church Island, i suoi dolci filari di tassi»; regalandoci un lampo di Carrickfergus, che immagina come «una piccola città fatta di luce», e poi ‘Una cartolina dall’Antrim settentrionale’, «un Ulster anarchico, vibrante / che non trascende – vecchio decoro // e Old Bushmills, / focacce senza lievito, tè forte, / corda nuova, sale di scoglio, piante di cavolo, / pane di patate e Woodbine». Non solo immagini, ma anche sapori, in un quadro che ci restituisce per intero l’esperienza sensoriale. Heaney ci fa entrare a Derry, il giorno del funerale delle tredici vittime dell’odio: «Era un giorno di freddo / crudo silenzio, cotte e sottane / smosse dal vento: / zuppe, infiorate le bare / una dopo l’altra / sembravano fluttuare dalla porta / della cattedrale stracolma, / come boccioli sull’acqua lenta». E ancora ci porta a Wicklow e alla sua rada che ferve «di opere come un mortaio […] ho detto ad alta voce “Un porto”, / e la parola s’ispessiva, si faceva chiara, come il cielo / altrove sui Minch, Cromarty, le Faroe».
È un’ode all’Irlanda, un invito al viaggio, e un faro puntato sulle cose semplici che danno senso alla vita, anche nella sofferenza di un mondo capovolto dove il perdono deve trovare «nerbo e voce» nelle gemme che si aprono come «pugni d’infanti».
Rossella Pretto