SCRIVO PER RIVIVERE

Demetrio Marra, Riproduzioni in scala
Al poeta interessa quel che accadrà tra cento o duecento anni, scrive Demetrio Marra riprendendo Majakovskij e il suo Il proletariato volante, nel poemetto che chiude la sua raccolta poetica. Si desidera postumo? Così dice. Eppure non riesce a non sporcarsi le mani di cozze e pomodoro o le maniche con il ragù degli arancini. Sarà forse perché quei particolari possano diventare, nella fuga del tempo, punti di una mappa, riproduzioni in scala del presente nel futuro. Tempo, non solo spazio dominato da «la circostanza dell’uomo». È un’esistenza che non sa restare, la sua, in transito tra le fermate da Pavia a Reggio Calabria. Ché Marra non si ritrova in nessuno dei due luoghi: entrambi innesti, qualcosa di esterno che viene introdotto in un organismo preesistente. L’innesto dovrebbe essere Pavia (città dove studia); invece il luogo d’origine, Reggio Calabria, come quello di arrivo, sono corpi estranei, due lettere dell’alfabeto: A e B. Il punto di congiunzione rimane dunque visibile, crea un attrito, qui ben rappresentato da Luciano Bianciardi, tanto presente (e quindi apertamente dichiarato) nella prima raccolta poetica di Demetrio Marra, Riproduzioni in scala (Interno Poesia, 2019, pp. 77, euro 10, prefazione di Flavio Santi). Quel doppio, quell’ombra che diviene vitale, organica, spinge Marra a farsi circolare nelle vene certe tematiche classiste, certa protesta, ma anche lo sberleffo. E poi una stanchezza che non dovrebbe essere presente data l’età del poeta (1995), che difatti avrebbe voglia di «correre come un toro/ impazzito», ma non lo fa perché quello è solo un pensiero nato già stanco e malato, che rifiuta la cura. Si immagina la calvizie e si spera appunto postumo per riuscire a vivere la vita, pur precaria e agra, tentando almeno di concludere una frase che rimane in sospeso: «raccontare è un’azione, esatta-/ mente come» o «raccontare una storia non serve a niente. Ho ucciso/ centinaia di possibilità per questa/ mania della scrittura». L’unico modo di salvarsi sono i treni, gli aerei, le macchine e tutto ciò che permetta di spostarsi evitando il rischio di rimanere asfissiati da certa aria di provincia o da quel «non-finito» meridionale. E il verso, il racconto del verso, sono altrettanti motori di ricerca, non di radici ma di identità, oltre il precariato e la rabbia: «Bisognava occupare le banche, non gli atenei o le campagne, le banche […] Milano, che città, farla saltare in aria! Milano certo, ma/ Milano non esiste» e non c’è nessun “torracchione” della Montecatini da far scoppiare, à la Bianciardi. Sembra un po’ presto per questi slanci esangui dal momento che niente basta, come non basta una altrettanto bianciardiana pisciata su Pavia. Tra l’essere romano di Ottiero Ottieri e il suo dover essere milanese c’è la scrittura di Demetrio Marra che si cerca e si trova comunque senza scelta, in una bellezza che è tale solo se non ti avvicini, ma abbacinante in certe brevissime apparizioni di mare. Allora meglio tentare o farsi tentare dall’utopia e dalla discesa: «Nel diavolo, probabilmente/ e sulla schiena delle donne, sul seno,/ sulle labbra, ci si salva: nella poesia/ debosciata e nel metro, eventualmente». Meglio aprire gli occhi e vedere che anche se «ogni cosa è stata concertata» ci si può far comunque traversare da concretissimi furori, dalla metrica del dialetto, con quei tre versi incastonati, come scrive Flavio Santi, «come una metopa su una parete moderna di plexiglass». Perché alla fine: «Chissà sul metafisico cesso del cosmo/ se mi chiederò del corpo/ dentro al quale io/ facevo ombra».
Rossella Pretto