SCRIVO PER RIVIVERE

Seamus Heaney, La follia di Aiace
"La traduzione comporta sempre un quantum di turbamento e di dolore”, ha detto un giorno Marco Sonzogni, dopo che mi ha generosamente affidato il frammento dell’Aiace tradotto da Seamus Heaney. È tutto vero, soprattutto pensando a questo passo sulla follia di Aiace, che viene appunto invasato da something, qualcosa che just came over him. Un incitamento soprannaturale (this supernatural soliciting, direbbe Macbeth) che lo monta alla carnefici na insensata, e che Tecmessa raccoglie e racconta: sua la testimonianza, sue le parole che tentano di gettare un ponte, di farsi traduzione degli istanti d’orrore. Così anch’io, sua concubina traducente, ho cercato il corpo a corpo con il testo trovando subito nella convulsione disperata, epilettica, degli zoccoli sulla sedia la scansione ritmica dell’agonia – il gancio per farmi travolgere da quel turbamento: un terremoto che ha scassinato la mia memoria focalizzandola su due episodi nitidi, per me guida e nervo scoperto. È un testo crudo ed essenziale, quello di Heaney, che scuote le viscere e si allaccia a un vissuto personale, in un travaso che non è mai nella proporzione dell’uno a uno, perchè whatever is given can always be reimagined, tutto ciò che è dato può essere reimmaginato, dice Heaney: è vita che pulsa quando la visita dell’altro diventa inaggirabile e, per un breve tratto, si fa aderenza: nel momento cioè in cui metto piede in Grecia, a metà strada tra la terra d’origine di Aiace e la sua tomba. Da quella scogliera contro cui si scarica la spinta dell’Egeo, e da cui guardo idealmente all’Ellesponto, non giungono le parole dell’eroe. Inutile cercarlo, lui aglossos, che straborda invece nei suoni cupi dell’onda e in un battito sordo di tamburi, nelle visioni di recinti abbarbicati ai monti che mi appaiono a strapiombo. Taglio su taglio, il nostro avvicinamento muto. Bisogna puntare gli occhi, scalare e scivolare, catturare on a rope ciò che difficilmente si concede, con furia e carezza. Perché alla fine, when we moved I had your measure and you had mine… Ed è un atto d’amore. “La traduzione comporta un certo quantum di turbamento e di dolore”, mi ha detto Sonzogni, “che sono tra scesi (mai veramente superati) quan do si arriva a una versione che li ha accasati fedelmente… che è l’unica vera fedeltà che chi traduce deve te nere presente”. Non dimenticando la musicalità, aggiungo io facendo tesoro delle parole di mio nonno, Elio Chinol, che a proposito della traduzione ripeteva sempre: “se aspira ad essere qualcosa di più di un rozzo canovaccio dovrà avere un ritmo, un disegno musicale e poetico”. Così, forte di queste due guide, ho tentato, seppur imperfettamente, di restituire, in spirito e sangue, la pulsazione dell’Aiace di Seamus Heaney.
Testimony: The Ajax Incident
“Lamps had gone out, the late sentries dozed,
When something just came over him. He rose
And rigged for action, lifted down
His two-edged slashing sword, a bedside weapon
He kept like a second bedmate, then slipped outside
Far more nimbly than you’d have expected
For a man his size, with that night-mirroring
Blade in hand, aloft. Anything
I said meant nothing to him, mere
Wife-babble, ignored the same as ever,
Even though this time there was no attack
Being sounded, no command.
Then he was back,
In through the tent door like a conquering drover
With his captive on a rope: bull calf, heifer,
Milk cows, rams and ewes, the very sheepdogs.
How long he’d rampaged through their pens And paddocks
Or why he was herding them I couldn’t tell
Until the butchering started. Can still
Hear the slosh of innards, piss and muck.
Some he beheaded with a single stroke
Down through the neck bone, some he wrestled flat,
Legs and belly up, and cut their throats,
For all the spurted dung and kicks and horn-toss.
Some that he tied and tortured like prisoners
Slit by slit, hamstring and lip and ear,
Just bled to death, hoofs beating at a chair.
At last there came a lull, then a tirade
Against those chiefs he thought he’d left for dead
On the floor behind him, once comrades, men of Honour,
But now reviled; he stood by the tent door
Bellowing hate and havoc and their names.
Then, bloody-spoored and raving, in he comes,
Returning to his senses bit by bit,
And starts to butt the tent-pole, going quiet
As he climbs and slips and struggles through a mess
Of entrails splattered and opened carcasses.
And so for a long while he just lay there dumb.
Dragging his nails and fingers for a comb
Through his slathered hair, breathing like a beast
Slack-mouthed and winded. But came round at last,
Risen off all fours to overbear.
Turning on me to explain the massacre,
So I told him what I think he knew he’d done.
Then Ajax raised his voice in lamentation,
At bay now and in disproof of his rule
That warriors didn’t weep, they weren’t old women-
But soon his head-back, harrowing wail
Turned to the long deep moaning of a bull.
Slumped, slow motioned, he is in there still,
Ensconced on a pile of slaughtered meat and offal
Lowing to himself. Something gathers head
And is going to happen. We must pay him heed.
Nothing is over, only overdue.
A friend should go to him. One, friends of you.”
after Sophocles
from: Ajax, Tecmessa: 285–323/4
published in: Times Literary Supplment, 2004
Testimonianza: il caso di Aiace
I lumi più non ardevano, le ultime sentinelle sonnecchiavano,
quando qualcosa montò in lui, soverchiante. Si alzò
preparandosi all’azione, impugnò
la sua spada a doppio taglio, pronta accanto al letto
come un ufficiale in seconda, e sgusciò via agile
quanto mai l’avresti detto, a giudicare dalla mole,
brandendo quella lama alta a raddoppiare la notte. Niente che io dicessi valeva a niente, solo
un ciangottio di donna, il mio, ignorato come sempre,
benché né attacchi né comandi, stavolta,
risuonassero imminenti.
E poi rieccolo,
all’entrata della tenda, mandriano vittorioso
con la preda stretta al laccio: vitello, giovenca
vacche da latte, pecore e montoni, persino cani da pastore.
Per quanto avesse imperversato nei loro recinti e ricoveri o perché li avesse tutti raggruppati non capii
finché non diede avvio al macello. Sento ancora
lo scolo delle viscere, il piscio lo sterco.
Alcuni li decapitò con un colpo netto,
alla base del collo, altri li buttò a terra,
pancia e zampe all’aria, e li sgozzò
scansando schizzi di letame, calci e cornate.
Altri, prigionieri dei legacci, li torturò,
taglio su taglio, dissanguati a morte, e via garretto
e labbro e orecchio, nel battere epilettico di zoccoli.
Infine si placò, per poi scagliarsi contro quei capi che pensava di aver lasciato ai suoi piedi, morti, un tempo compagni, uomini d’Onore,
ma ora vituperati; lì stava, all’entrata della tenda
ruggendo odio e strage sui loro nomi.
Ma eccolo che rientra, lordo di sangue e delirante,
e a poco a poco torna in sé,
tira testate al palo della tenda e ammutolisce
mentre scavalca e arranca e scivola sullo scempio
di viscere squassate e di carcasse squarciate.
E rimase così a lungo, come instupidito.
Unghie e dita usate come un pettine
a dragare la gran massa dei capelli, l’ansima di una bestia,
la bocca aperta e senza fiato. Ma alla fine rinsavì,
e recuperata la posa del dominatore
pretese da me la ragione dell’orrore;
così gli dissi ciò che credo già sapesse.
Aiace allora levò la voce in un lamento
di preda senza scampo e a sfregio del suo comandamento
che i guerrieri non piangono, non sono donnette —
ma presto quel gemito angosciante e strozzato
mutò nel lungo, cupo, muggito di un toro.
È ancora lì, abbattuto e ritardato, ora,
rannicchiato sulla catasta di carni e frattaglie,
che si lamenta. Si prepara qualcosa
di ineluttabile. Dobbiamo vegliarlo.
Nulla è compiuto, soltanto rinviato.
Che un amico vada da lui. Amici, uno di voi.»
Rossella Pretto