SCRIVO PER RIVIVERE

Mario Santagostini, saggio per Atelier
Abiti lo spazio dello scarto, intendendo l’intersezione dove lo spazio giace col tempo, o viceversa, non sai dirlo, quello dove non ci si incontra senza sforzo o forse ci si incontra nella differenza, nell’attimo in cui l’occhio si innesta nella lente del microscopio e si fa campo, iato o evento che devia il destino e lo precipita nel linguaggio. Laddove, camminando sul corso, «consideri tutta la gente che vedi / o vedrai come / gente perduta, e ritrovata», e non è un caso se in epigrafe dell’ultima raccolta poetica di Mario Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita (Garzanti 2022), ci sia La terra desolata di T.S. Eliot. È solo che i cadaveri di Santagostini, le ombre o i casi in potenza, non fioriscono in primavera, offrono «più di una vita da lasciare. / Ma una, da ricordare». Vita potenziale. La stessa dipanata da Javier Marias che fa dialogare opere e tempi, variazioni e ripetizioni. L’elemento altro che è laddove non è, o non è solo, la sindone della cosa perduta. Chi è dunque la terza ombra che ti cammina al fianco? ti chiedi pour cause tendendo una mano a ringraziare il poeta per questo libro. Lo spazio dei vivi e dei morti di Rilke. Non solo. L’alternativa dove ciò che accade è accaduto o non accadrà mai o forse accadrà di continuo. Quel cortocircuito che addensa la tua mente portando al godimento dei sensi. Ti distendi e contrai nel paradosso. Sai cosa vuol dire abitare dove altri hanno abitato quando non c’eri, o non eri ammessa. E adesso che lo sei, sono gli altri a non esserci. Ma li incontri proprio ora che batti sulla tastiera immaginandone gli inchiostri. Li vivi scritti, loro morti che ansano ancora in te. Che non sei loro. O forse in parte. E più li avveri e ti ritiri, più ti avveri facendoli ritirare. È ciò che ti dice Santagostini… no, non lo dice lui, con quel sorriso sornione e schivo allo stesso tempo, gli occhi contratti in uno spillo che sa aprirsi alla luce. È quello che pensi tu leggendolo.
Attraversi le depressioni della casa che si fanno xilografia di una famiglia. Tocchi i graffi delle unghie così come li hai ritrovati e immagini sia davvero quel malato che si aggrappa alla porta e tenta di uscirne. Residuo di vita. Ciò che rimane. I pensieri già pensati o i ricordi che vanno e vengono, si affacciano e se ne vanno. E ti rammenti anche di quella donna che abitava al piano di sopra: la vedi, una volta finito l’amore sporco, via a confessarsi mentre si rassetta la sottana dai rimasugli liquidi dell’uomo nero, si riavvia i capelli e sale quei pochi gradini del Gonfalone. E con la scusa del parlare sussurrato tende la mano scarna alle offerte e si serve alla mensa del Signore. E poi dice Amen. Ma non si cura del male che le avanza dentro. E gli antenati in subbuglio a far chiasso dentro di te. Era cresciuta con una madre che teneva due uomini in casa, avendone anche lei fatto paradigma necessario. Due uomini e due figli. E il marito, ora, andato. Come il resto. Tornerà? È già tornato?
Tu da questa stanza non esci mai, o quasi, qui hai i tasti e i testi. È lo studio. «Almeno una volta, / anch’io ho pensato come la specie / ha dato, tolto corpi», scrive Santagostini, e si chiede se ne esista una che li restituisca e se sia la sua: «Forse, un’opera / ancora nascosta, un giorno, / li riporterà qui. Non è questa poesia, l’opera. / O non adesso. / Ma ha a che fare con me». Perché la poesia, comunque, è una forma di ordine nel caos della mente. Ed è ciò che unisce la materia animata all’inanimato, qualunque cosa Santagostini intenda per inanimato. Ma è anche, forse, il ponte della parola su cui qualcosa, qualcuno giunge. Da dove? Dal parco di Berlino. Una lettera kafkiana. Eccolo il titolo della raccolta: è la lettera (le lettere) per la bambina disperata che Kafka incontrò nel 1924, in lacrime perché aveva perso la sua bambola. Così, lo scrittore inventò le storie della bambola viaggiatrice. «Lavorava con accuratezza. Come chi dà vita alla materia. O la restituisce, dopo che è andata persa», scrive Santagostini. E allora scrivere è ridare vita alla materia o restituirla alle ombre di chi si è perso. E non è forse, questa, pietà, quella su cui Santagostini si interrogava altrove? Tutti questi giri, queste varianti e variazioni, sono forse serviti a ricostruire un volto, quello della bambola, quello stampato su un muro di una Milano sironiana, quello che non si vede perché è solo un’ombra della caverna, quando l’ombra non ha volto, solo una massa granulosa, un corpo compatto e pesante come le anime perdute. Corpi pesanti, sì, perché, scrive Santagostini, «ho pensato come la leggerezza, il nitore di quanti crediamo corpi fatti d’aria (al punto da chiamarli ormai – anime o spiriti) appartengono più ai vivi che ai morti. E che siamo noi, i più vicini alle ombre. E come è difficile, per chi dalle ombre è andato lontano e sarà sempre più lontano, arrivare fino a qui».
E allora ti chiedi anche: chi è che parla? Chi lo sta facendo mentre il silenzio avanza, e un tempo si sfoglia dall’altro nella carne dello stesso individuo?
Il punto è che qui di vite ce ne sono molte, qualsiasi cosa siano, di chiunque siano, molte che qui confluiscono: «Tante vite, tanti ultimi pensieri. E io che scrivo da una sola, di quelle vite», nelle parole di Santagostini. Perché, certo, non sarà mai tutto vero, di queste storie. Soprattutto per un motivo particolare, e cioè che «A volte, arrivo a credere», scrive, «che l’unica strada per ricordare i morti senza metterli in croce nella mia poca memoria, sta nel raccontare anche cosa non hanno fatto, chi non sono mai stati. E dove non sono mai passati». Probabilmente perché i morti sono fondamentali, nell’universo cognitivo di Santagostini, che si chiede: «Esistono forme di lutto senza morti? Allo stato puro? Non lo so. Ma a volte, ho pensato a famiglie intere, forse dei clan o popoli che nemmeno li conoscono, i morti. E li immaginano».
Ecco, a parte il dubbio incallito che non può mai approdare a certezza (la domanda che accompagna ogni sguardo sul mondo), ecco allora che la morte, i morti, e il lutto, sì, il lutto è connaturato all’umano, potresti e devi pensare; e la possibilità di viverlo come esperienza, il lutto, è dato nella forma dell’immaginazione. Sarà perché i morti muoiono lentamente e appaiono e scompaiono, come nel Ragazzo morto e le comete di Parise, morti che però, a un certo punto, bisogna salutare. Morti di cui si sente la presenza, che tornano a trovare, ma di cui si sente anche l’indifferenza, la lontananza. O sarà, come ricorda Silvio Perrella nella postfazione al libro di Parise, il modo di vedere la morte di Anna Maria Ortese, che si chiedeva: «Chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un povero animale o di un fiore».
Memoria e immaginazione allora si intrecciano e si accavallano nelle trame del cervello, con tutte le immagini che lo innervano, anche tramite il continuo bombardamento cui siamo sottoposti e che contribuisce a rendere labili i confini tra esperienze dirette e mediate. Conosciamo ormai attraverso brandelli d’immagini, pensi, così come ci ha insegnato Eliot, proprio nella Terra desolata: «Quali radici s’aggrappano, quali rami crescono / Da queste macerie? Figlio dell’uomo, / Tu non lo puoi dire, né indovinare, poiché conosci solo / Un mucchio d’immagini infrante».
Dopo il crollo delle Torri gemelle, a maggior ragione, siamo abituati a esperire il mondo tramite il crollo e il frammento, spezzata la narrazione, dirompente la presa diretta, nessuna facoltà critica, la conoscenza si nutre dello spezzone di video, dell’immagine tagliata senza tenere conto del punto di vista, della parzialità di chi la osserva e la porge. Ti chiedi, una volta di più, da dove vengano i pensieri e se vengano dallo stesso luogo in cui sono approdati i morti che però, in realtà, sono lì e anche qui. Dipende dalla nostra percezione?
Sensi che soffrono. E forse anche la materia soffre. «Non lo so, non ancora», scrive Santagostini, «E nemmeno se per la materia soffrire è un bene, o un male. Ma arrivo a chiedermi se il solo domandarlo non è stato uno dei pochi momenti alti della mia vita. In una prospettiva rovesciata e ancora tutta da chiarire, lo è stato. E una volta ho incontrato il sublime. In sofferenza, ma era il sublime. E non l’ho capito. O è stato il sublime, a non capire. Troppo tardi per tutti e due. Ci mancherà qualcosa, alla fine». C’è dell’ironia. Come, in un certo senso, è comico l’incontro tra Dio e l’uomo - tra animato e inanimato? -. Centrale è la questione dell’inanimato. Ma, insomma, di quell’incontro, scrive Santagostini, «Provo a immaginare chi ascolta una pietra, o dell’aria. E qui, tra gli attributi di Dio, ci vedo l’umorismo. Finissimo, quasi rarefatto». Straniante. O un dono. Ci sono delle tavole. Viene donata la Legge.
Così, l’immaginazione porta anche una lettera, arrivata e mai partita. O un libro, che racconta una versione diversa della storia. Un gioco, l’alternativa. Come in The Man in the High Castle, la serie tv (che era poi un libro di Philip Dick, tradotto in italiano come La svastica sul sole), in cui un libro clandestino, arrivato da chissà dove, un mondo parallelo (o meglio, nel libro era scritto da tale Hawthorne Abendsen), ma insomma questo libro nel libro poteva narrare un diverso corso del nazismo, in un mondo in cui la Germania aveva vinto e governava assieme al Giappone spartendosi il mondo: la vittoria dell’Asse con la resa, nel 1947, di Stati Uniti e Alleati. Il Canada rimaneva però indipendente. Così come è libero nel Racconto dell’Ancella di Margareth Atwood, strano e benevolo destino.
«Adesso, pensa a chi è stato qui, chi è andato via, chi c’è ancora. E pensali come ombre proiettate su un muro, o sulla parete cieca d’un cortile. Se sono ombre di vivi o morti, non lo sai. E nemmeno conta molto. Ma forse, qui vedi anche una figura terza a vivi e morti», scrive Santagostini. Sono le ombre di Platone, hanno a che fare con il nostro modo di percepire il mondo, ciò che è dato esternamente. E incita quindi, Santagostini, a continuare, a sviluppare, a riferire rispetto a quel gioco.
E tra le righe di Dick, in questo campo/controcampo che si alterna, leggi: «Come se, pensò, potesse sorgere qualche dubbio sull'autenticità del nostro certificato di nascita. O sul nostro ricordo di papà. Forse, per esempio, io non mi ricordo veramente di F.D.R. Ne ho un'immagine artificiale distillata dall'ascolto di molti che ne hanno parlato. Un mito sottilmente innestato nel tessuto cerebrale. Tu non puoi vederlo ma il fatto rimane». Intuisci, allora, che questo non è un paragone calzante, quello con Philip Dick, probabilmente no, o comunque non lo sai, è la tua tendenza a fagocitare tutto, ma vuoi usarlo lo stesso perché può fare immaginare - eccola di nuovo, questa parola importante per Santagostini -, può cioè mettere in immagine e aiutare lo svolgersi del pensiero laddove subisce un’impasse e deve saltare per poi ripresentarsi logico e compatto e proseguire il suo ragionamento. E in definitiva, nel libro di Santagostini, c’è anche una poesia intitolata ‘Due dettagli del fascismo immaginario’. E magari non c’entra niente. O magari sì. Ma accogli l’invito del poeta a continuare. E sempre in tema di serie televisive – prosegui il gioco, annoti, riferisci - ti viene in mente quella intitolata Falling water che comincia con queste parole: «Avete mai l’impressione che i nostri sogni cerchino di dirci qualcosa? E se fossero come tessere di un grande mosaico che stiamo sognando tutti insieme? E se una persona avesse la capacità di uscire dal suo sogno ed entrare in quello degli altri? E se quella persona fossi tu?». E te la ricordi, quella serie tv, forse perché è intenta a indagare il sogno, quando la succitata poesia di Santagostini sul fascismo immaginario termina così: «E certe mie giornate, ancora oggi, sembrano arrivare da quel sogno, e prolungarlo». Lynch, in una scena di Twin Peaks, si chiedeva - cioè se lo chiedeva Monica Bellucci, nel caso specifico, ma era Lynch a pensarlo: «Siamo come il sognatore che sogna e vive dentro al sogno: ma chi è il sognatore?». E anche lì si davano più opzioni per l’identità, il vissuto, entrava in scena un doppelganger: più vite, una sola? Tempo e spazio collassati. Nella storia di Falling water è invece in gioco il controllo della mente, e per farlo si agisce sul crinale tra sonno e veglia, sulla vetta dell’immagine. Si mettono in scena, insomma, gli ingranaggi del racconto, storpiato, distorto. È in azione, insomma, un certo modo di raccontare e raccontarsi la realtà in cui si agisce. Ancora una volta, ti dici, ciò che si indaga è l’indagare. «Nei miei momenti più alti», dice Santagostini in ‘Uno, Certamente Dei Migliori, Ha Detto’ contenuto in La vita, «non sono mai stato io». E nella bandella anteriore del Libro della Lettera cogli il perché hai dovuto mettere in campo tante ipotesi, narrazioni, e tanti media, in definitiva: «Così, l’autore retrocede in momenti della Storia che non ha mai vissuto in prima persona e lì osserva chi c’era, registra cosa ha fatto e cosa avrebbe potuto fare, immergendosi in un vissuto e una memoria collettiva dove l’io tende a dissolversi fatalmente nella moltitudine».
È questo, Il libro della lettera arrivata, e mai partita, il coacervo delle parole che si sono rincorse nell’opera di Santagostini, e qui condensano per rendere la sostanza effettiva di un microcosmo, quello della mente del poeta che in sé contiene moltitudini o multiversi regolati appunto dall’organizzazione razionale che sola può arginare il caos dando struttura alla materia che si dispone ad essere conosciuta (pur nell’errore che scardina i confini tra un insieme di conoscenza e l’altro). Beckett tentava di conoscere e rendere la tentata immagine della conoscenza del mondo attraverso i suoi scritti, dove appunto il tentativo era quello di sfrondare qualsiasi retorica potesse creare nebulosità, agendo invece sulla desertificazione del dipiù per arrivare all’essenza, depauperando il linguaggio (anche mediante l’uso del francese, non la sua lingua madre) o per giungere alla pietra che non mente, all’unità minima di realtà (?), percepita e indagata o restituita in maniera fedele e accanita. Un tentativo ovviamente fallimentare. Ma rende palpabile la tensione. Così, in qualche modo, in Santagostini. Lo vedi in Felicità senza soggetto, nella poesia ‘Petrarca, Ipersecretum. In prima persona’:
Il mio dizionario era minimo,
la prosa impraticabile.
Ma ho visto nelle parole
Ansie di protagonismo che vengono
Da lontano, non so da dove.
A volte penso: stanno
Qui, ma come dopo una caduta.
E siamo noi il loro abisso.
Noi autori di opere, intendo.
Chissà cos’erano, prima.
Un surplus di universo, nemmeno
Il più dolente: questo
È stato il mio Canzoniere, in fondo.
E allora ti chiedi se quel brivido che proviene dalla secchezza di un dettato a più riprese asciugato abbia i connotati giusti per arrivare, come una lettera, da un altrove che tanto si mantiene alieno da risuonare pericolosamente vicino. Il pericolo, l’allerta si danno quando si è prossimi a scoperchiare qualcosa. Se dunque la poesia, pensi, aiuta ad aggirare la scorza delle cose per mostrarsi e rimostrarsi, recalcitrante, questi raid di Santagostini, ogni volta rimodulati perché il poeta cerca la giusta combinazione che apra la serratura, sono ordigni poetici che trovano il loro senso laddove vengono abbandonati e raccolti dal ricevente, proprio come un dono arrivato e mai partito oppure partito ma in altro tempo, altro luogo, non qui. E il lettore deve correre il rischio di prendere in mano quegli ordigni arrugginiti e permettere loro di deflagrare, se è il caso, chissà, facendo sguinzagliare una visione che non torna, strampalata e apparentemente bislacca, imprevedibile.
Perché, in definitiva, come scrive Santagostini in (Nuovi versi del malanimo), contenuti in Una Felicità - ma erano già in A. con il titolo (Postcreature, Tutti) -: «Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo». Beckettiani. E anche qui, probabilmente, entra una punta di ironia.
Ti domandi allora se tutto quel racconto con cui hai riempito i vuoti di una storia di cui avevi solo vaghi accenni, e cioè di come quella donna del Gonfalone sia cresciuta in una casa con la madre e altri due uomini, nel quartiere Barche di Vicenza - che notoriamente un tempo era anche un luogo del malaffare, oltre a custodire tra le sue vie un porto dove venivano scaricate le merci, essendo allora quelle fluviali ancora vie percorribili, e custodire quindi un mercato, e si sa che nei mercati si contratta e si vende qualcosa, anche la carne, la propria - ti domandi allora se quella storia che non sai se poi sia vera o no o sia vera in parte e in parte no, insomma se l’infanzia di quella donna, quella che era una donna e ora è una vecchia – tu la chiamavi vecchia bastarda in uno dei primi racconti - si sia riversata in quello che era il suo presente (che ora d’altronde è passato), facendole credere che fosse possibile e lecito anche in una realtà come questa, così provinciale e retrograda, tenere due uomini per sé non sapendo, o meglio sapendolo forse solo per indicazione altrui, cioè per le chiacchiere che gli altri ne facevano, non sapendo insomma se i suoi figli fossero del marito o dell’amante, cosa di cui forse solo la bontà del marito aveva certezza; e per finire ti domandi se quella storia che ha nutrito i muri dell’appartamento che hai sopra la testa non faccia perfettamente parte, o meglio, non abbia influito e influenzato la storia vera (per quel che può essere vera una storia essendo per ciascuno qualcosa di diverso e dunque molto fluida), la storia vera di una famiglia che anche in extremis, cioè mentre dileguava o diciamo meglio mentre uno dei suoi ultimi membri se ne andava al creatore, la storia di una famiglia che anche in extremis, dicevi, tentava di resistere all’univocità sfaldandosi in racconto, sfaccettandosi in mille angolazioni e punti di vista e venendo quindi a consistere di tutti quei pareri e racconti e dettagli, magari solo immaginati, di cose successe o forse no, ma viventi tutte nella contaminazione che, nella mancanza di una voce che sappia imporre la sua autorità, si crea per forza di cose: la moltitudine che dà origine a una realtà complessa a cui ognuno deve rapportarsi. E dunque questa realtà è fatta di molti accadimenti, talvolta avvenuti e talvolta solo immaginati o arricchiti di particolari che ne hanno stravolto la sostanza, ma ne hanno anche articolato la struttura facendola intrecciare con piani diversi che probabilmente l’hanno resa sfuggente, tanto che non se ne può più dire quale parte sia certa e quale solo supposta. Un organismo che si modifica ed esiste nella mutazione. Anche quella potenziale.
Ecco, ti dici, questa è un’altra possibile lettura di quel che scrive Santagostini, un’alternativa alla sua storia, una dislocazione, il racconto di un altro che tenta di dire la sua sui medesimi temi, a meno che questo altro non abbia preso fischi per fiaschi, ed è una delle possibilità. E allora potresti citare questi versi contenuti nella sezione ‘Kafka in Palestina, nel 1931’ (altra plaquette del 2016 qui rimodulata), che dicono:
Cos’è l’intera vicenda di Abramo
se non una burla,
una storia per teatrini in yiddish itineranti
e di quart’ordine?
I bambini la conoscono a memoria.
Presi dalla noia, la recitano
e cambiano le figure:
parla a volte un agnello, oscuro vice-Dio…
L’arabo della casa di fronte
se la fa raccontare
da un merlo indiano ammaestrato.
Come una litania.
Ecco qui. La storia, in definitiva, anche la più sacra, è una burla e si può raccontarla o farsela raccontare anche da un merlo indiano ammaestrato o cambiare le figure, giocare al teatro che può dire mettendo le maschere, e più si nasconde nelle cose minime più diventa dirompente e cruento. Kafka diventa Santagostini e Santagostini si parla attraverso il grande scrittore con cui nessuno, credi e crede anche Santagostini, può fare a meno di fare i conti o portarselo sempre appresso, anche in Palestina, dove lo scrittore voleva andare ma forse non proprio come un desiderio spasmodico.
Ciò che tenti di dire, allora, è che nel teatro delle ombre che il poeta mette in scena - o per dirla meglio, perché non le mette in scena, le interroga… Ricominciamo! Ciò che tenti di dire allora è che nel dialogo serrato che il poeta conduce con le ombre - quelle che tornano o no, sono già tornate e siamo noi ad essercene andati -, l’intimità che tu avverti come lettore con il poeta che così va dipanando il suo pensiero diventa tale che sembra di avercelo davanti, e anzi che il suo pensiero sia il tuo, cosa di cui ringrazi perché sai che anche i tuoi morti o i maestri, i compagni, o semplicemente gli sconosciuti incontrati, entrano ed escono dal vissuto e ne fanno parte, sono comprimari e tu continui a parlarci. Ma non in un dialogo folle: un altro tipo, fatto di cose e sensazioni, di continuità col passato e di rotture o, molto banalmente, di oggetti spostati, di una poltrona messa altrove, di ricordi che sono materia non inerte, ma sostanziano il tuo passaggio tra le cose, capisci?
Non tutto. C’è comunque qualcosa che no, non si capisce, che si tenta di comprendere: «E non capisco se c’è vapore d’afa, o ancora nebbia. / Se le giornate si allungano, / non si allungano. / Se chi cammina in strada va via per sempre, / o il suo è un ritornare»; e forse il tentativo di capire è inutile se tante sono le finestre, e all’apparenza paradossali, da cui guardare un universo debole, che non sa far vivere due volte. Forse perché la resurrezione non è cosa che ci riguardi, non ha niente a che fare con la vita: «Troppo più forte, la vita. / E più violenta. E zeppa di aiuti: l’io, / l’infinito, l’idea del bene, il cielo, Dio stesso», secondo Santagostini. È il realismo magico per cui Arturo Uslar-Pietri pensa «l’uomo come un mistero circondato da fatti realistici. Una previsione poetica o una negazione poetica della realtà». E ricordando Javier Marias, l’impossibilità di vivere due volte (sicuramente nella stessa forma) è anche tutto ciò che va perduto e non tornerà. Non tornerà. Ma contamina l’altro con le sue voci, il suo evento ormai inconcepibile e intollerabile, «Domani nella battaglia pensa a me». Che, poi, di chi sono quelle voci, ripeti ancora: di Marias, del suo personaggio, di Riccardo III, dei suoi rimorsi, di Shakespeare?
Capire era stato difficile fin da principio, già dalla prima raccolta di Santagostini, Uscire di città, «I balconi aperti alla luna / c’è una foresta di nomi / e capire è difficile. / Nafta odore forte vicino alla Marelli / abbiamo aspettato l’autobus / per contare meglio i minuti e aspettare l’ora / di arrivare qui a dettare le parole / qui, in queste camere, / dove si vedono, di lontano, / i camions spaccare la mattina all’alba». La prima raccolta, dove c’era già un luogo che si pretendeva eterno, un luogo oltre la città, fuori dai margini, che il poeta tentava di riprodurre con le parole – puri, i nomi, tenace ed esatto il lavoro, come le immagini. Ma il punto è, ti sembra di poter afferrare, che se ci sono anni in cui si arriva in pochi e tante cose non si sanno, però, scrive Santagostini, «Non lo so. / Qui, sto soltanto parlando di ragazze amate, / o non amate. / E di me che le ho perdute». E insomma, non è che sia proprio così poco. L’amore, tutto ciò che c’è stato ed è andato perduto, anche solo come fantasma, qualcosa che ha transitato lasciando tracce, come tutto: transita e transitando scava i solchi per un tram che corre, o frena, appena la di là della finestra. Tutto ciò che c’è da vedere, in definitiva. O meglio, qualcosa da vedere e qualcosa da ascoltare e riascoltare c’è, sempre, come questa poesia, tra le più antiche di Santagostini sull’amore perduto. E allora finisci a domandarti dove va la vita non vissuta, dove vanno le persone, quella persona in particolare, e se va in un altro tempo e tornerà o non tornerà mai. E così, tornando daccapo - perché, citando l’Eliot dei Quartetti, nella fine è il tuo inizio -, lasci che le cose accadano o anche no, ma ti metti in ascolto e tanto basta:
Mi sei ricomparsa nei giri della circonvallazione
hai trasformato le presenze in simboli
e la strada in segno. Sai di
muri rinsecchiti e lampionaie sbiadite.
Ricordo come ti ho aperto il riso
nelle campagne gelate, allora e come
mangio qui i pezzi sparsi dei tuoi suoni
svaniti, quasi ottusi di passo
e, ancora, svaniti.
(Scale)
Ma è altro il sole di mezzanotte
che ci stanca e altro il vento che
stringe i vicoli a gennaio
e, diverse, spossate, le anatomie dei nostri corpi
che devono specchiarsi e sfuggirsi per esistere.
Tardi, tace la strada e, con lentezza,
non ci sono che addii.
Rossella Pretto