SCRIVO PER RIVIVERE

Viaggio a Lerici
Questo è il diario di molti viaggi e diverse sovrapposizioni. Un distillato di Lerici che mi ha inebriato, facendomela eleggere luogo dell’anima e coppa di racconti, a cavallo tra realtà e idealità, un crocicchio dove i tempi si mescolano e i dialoghi si intrecciano.
La prima volta che ho incontrato il borgo ligure è stato per uno scherzo del destino. Cercavo un luogo per ambientare una storia che mi premeva raccontare ma che nel suo nucleo originario si svolgeva a New Orleans. Era, come spesso mi capita, una rimodulazione di una storia già scritta. Il suo personaggio principale mi accompagnava e indispettiva da anni e io avevo promesso di darle voce. Così mi accingevo a trovarle casa in Italia ma non trovavo, pensando e ripensandoci, un luogo dove potesse posare i passi tremolanti. Decisi così di fare un gioco. Avrei preso una cartina, chiuso gli occhi e puntato il dito a caso. Lì sarebbe stato il suo universo.
Lo feci e capitò Lerici.
Non la conoscevo se non per vaghi ricordi riguardanti il Premio Lerici Pea. Il nome del golfo però mi convinse che lì doveva essere di necessità la sua casa. Solo dopo collegai tutto a Shelley e ci andai per davvero. All’inizio usai google map e lo street view. Volevo cominciare a scrivere, a immaginare, a darle un luogo che avesse contorni ben definiti. Eterea, svampita e sull’orlo di una crisi di nervi, la mia protagonista aveva bisogno di ancorarsi per non scomparire nel trasferimento dalla costa americana di New Orleans alla dolcezza italiana, così armoniosa e composta. La riconoscevo dal suo stare al limite di un baratro incantatore, come un pesce accorso ad adorare la fiamma ingannatrice del pescatore con in mano la fiocina. E qui mi venne in soccorso, con i suoi Versi scritti nel golfo di Lerici, Percy Bhysse Shelley, che poco distante ha vissuto gli ultimi anni della sua breve vita perdendola poi in mare di ritorno da un viaggio tra Pisa e Livorno. «Non oso riferire / i miei pensieri; ma in tal modo turbato / e debole sedevo e i vascelli miravo / scivolare sul vasto mare luminoso, / come cocchi alati dallo spirito mandati / sull’elemento più sereno e chiaro / per strane e remote incombenze / come se per qualche stella elisia / facessero vela in cerca d’un filtro che guarisse / un male dolceamaro come il mio», scriveva.
Così, la prima volta che vidi Lerici dal vivo ne rimasi delusa. Ma soltanto perché le garze da cui erano avvolti i miei occhi erano intrise di una strana sostanza chiamata passato. La realtà dell’oggi strideva col luogo che avevo troppo a lungo nutrito di fantasie. Eppure la bellezza del golfo non ha tardato a farsi largo conquistandosi a suon di curve l’ossigeno necessario per il respiro aperto. Scendendo dal promontorio lo sguardo rotola giù fino al mare e lì veleggia trascorrendo da un capo all’altro, si impenna e spumeggia ai piedi del castello che domina la punta rocciosa slanciata sull’acqua e la scogliera a difesa del porto - ed è tutto un tintinnare di alberi e vele, beccheggiano le barche all’ancora, sciamano turisti e villeggianti tra la piazza e il lungomare sorseggiando aperitivi nei tanti locali. Quieta, l’onda poi sostiene lo sguardo e lo soffia fino a risalire la costa piegando verso San Terenzo, culla - per gli Shelley - di una disperazione che non ha termine. Lì, infatti, abitarono gli ultimi mesi prima del naufragio del poeta, in quella che è chiamata Villa Magni. E tra i due estremi della baia: la passeggiata ombreggiata dalle tamerici, ora insignita delle targhe specchiate apposte dal Premio Lerici Pea in ricordo dei poeti che qui sono stati premiati, da Paolo Bertolani a Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, passando per Maria Luisa Spaziani, Mario Luzi, Seamus Heaney, Yves Bonnefoy e tanti altri grandi. E ancora: i giardinetti di Lerici che proteggono le case affacciate sul golfo dai bisbigli marini, un luogo di pace e d’ombra in cui sedersi a guardare lontano – alle gobbe stondate di Portovenere, che chiude la baia, e del Terrizzo, con il parco naturale - e nelle ore più calde a rinfrescarsi con un gelato o una bibita fredda. Poi l’infilata degli hotel, le spiagge inscritte in due calici di mare e, al confine tra Lerici e San Terenzo, villa Marigola, dai cui giardini si aprono visioni di incredibile bellezza che incornicia il domestico infinito del Golfo dei Poeti, come lo ribattezzò Sam Benelli quando era ospite della villa, con il parco di olivi e viti che digrada fino alla casa bianca che fu di Shelley. Tornando indietro, dalla piazza Garibaldi non sarà male inerpicarsi per i vicoletti che incidono il promontorio scavandosi un riparo sicuro tra le pietre muschiose che godono i vantaggi di un’esposizione solare indiretta. Qui si trovano casette abbarbicate al pendio e piccoli giardini nascosti, ma anche sorprendenti squarci d’azzurro che bucano il muro delle case. Si arriva poi a un bivio: da una parte il castello e dall’altra, tramite una serie di scalette di pietra, si risale il promontorio per sbucare nell’altra cala, alle spalle di Lerici, la cui vista si gode anche dal piazzale antistante il castello e svaria su un sentiero tra il lussureggiare del mare che spadroneggia. Alla fortezza, costruita originariamente dai Pisani nel XIII secolo e che fu per secoli una prigione genovese di massima sicurezza con numerosi prigionieri di rango rinchiusi al suo interno, si può salire anche dal porto inoltrandosi in un tunnel che fora la montagna e in cui è posizionato un ascensore. Se il tempo è burrascoso l’argine del porto è un luogo da non perdere. All’estremità, in un punto quasi nascosto, vi è infatti una scala che porta a uno sperone allungato sull’acqua o la prua di una nave. Ecco allora l’onda che a tutta forza si schianta e fa gorgo sotto i piedi, davanti nulla se non il mare furente, che schiuma e muggisce inerpicandosi fino al viso in vampate d’acqua. Si avrà un assaggio del mito romantico della pochezza dell’uomo davanti alla tempesta o del memento di non sfidare il mare, non quei muraglioni che nulla chiedono se non di rovesciarsi e ancora gonfiarsi fino al boato che rovina.
Shelley amava l’acqua e non poteva stare senza una barca. Aveva risalito il Tamigi, navigato sul lago di Ginevra e in Italia tornava al mare o ai fiumi appena poteva. Era un richiamo troppo forte, il fascino della fine che si avverte e in maniera imperfetta si costeggia tentando di diluirla. Percy e Mary avevano abbandonato l’Inghilterra a marzo del 1818 e da allora erano andati girovagando per l’Italia: Milano - passando per il Monte Bianco che gli aveva ispirato la superba poesia scritta, almeno in parte, nel luglio del 1816 – e poi Venezia, Roma, Napoli, Firenze, Livorno, Pisa. Sempre instancabili.
In Italia, Percy ha scritto la maggior parte delle sue opere. Mente inquieta, curiosa e dalla fervida fantasia, ma anche tenace difensore di ideali che gli avevano alienato le simpatie inglesi ingrossando le schiere dei suoi detrattori, sempre pronto a gettarsi a capofitto in imprese rivoluzionarie ma anche capace di sentire il senso vibratile della natura, dalla salute precaria il poeta aveva tratto l’impulso di godere di climi più miti e aveva trovato una patria nel Belpaese. Dopo i soggiorni al Sud, i coniugi si erano stabiliti in Toscana. Ma un giorno Percy Bysshe, da Bagni di San Giuliano dove risiedeva con la “famiglia allargata”, decise di fare una gita a La Spezia. La bellezza del golfo lo incantò. Rimase ancora un po’ a Pisa e nel febbraio del 1822, con l’amico Edward Williams, si recò a La Spezia a cercare casa. Il 26 aprile, quindi, lasciarono Pisa per l’unica abitazione che lui avesse trovato. Ecco come la descrive Mary: «il mare arrivava fino alla porta, le ripide pendici di una collina la proteggevano da dietro. Il proprietario su cui era situata era malato di mente. […] Aveva (e questo agli Italiani era sembrato un evidente sintomo di indubbia follia) sradicato gli olivi sulla collina, e piantato alberi da foresta. […] Lo scenario era veramente di inimmaginabile bellezza. La distesa azzurra delle acque, il golfo quasi completamente circondato dalla terra,[…] le varie forme delle rocce scoscese che delimitavano la spiaggia, sopra la quale un unico sentiero serpeggiante e accidentato conduceva a Lerici, e nessuno dall’altro lato, il mare privo di maree, che non deponeva sabbia né ciottoli, formavano una composizione quale può scorgersi solo nei paesaggi di Salvator Rosa. A volte il sole svaniva quando lo scirocco infuriava – il ponente, come veniva chiamato su quella costa. I venti e le bufere che salutarono il nostro arrivo circondavano la baia di spuma; il vento ululante spazzava intorno alla nostra casa esposta alle intemperie, e il mare mugghiava incessantemente, così che quasi ci sembrava di essere a bordo di una nave. Altre volte il mare e il cielo erano calmi e assolati, e i ricchi colori dell’atmosfera italiana si stendevano sul paesaggio con tinte brillanti e sempre mutevoli».
Il poeta aspettava solo la barca che aveva ordinato a Genova e che arrivò il 12 maggio. Il primo luglio, lui e Williams salparono alla volta di Livorno per accogliere l’amico Leigh Hunt. L’8 era tutto finito. Ma ci vollero giorni per scoprire la verità e ritrovare i corpi. «Vivendo sulla costa, il mare era diventato un giocattolo», scriveva Mary Shelley: «come un bambino gioca con un ramoscello acceso, finché una scintilla incendia una foresta e semina ovunque distruzione, così noi senza paura e ciecamente stuzzicavamo il pericolo, e ci trastullavamo coi terrori del mare».
Era tutto molto diverso, lo so e lo immagino mentre mi siedo al tavolino di un bar di San Terenzo che ha il suo dehors sul mare, con accanto inseparabili letture – e cioè i due Meridiani Mondadori curati da Francesco Rognoni e la monografia scritta da mio nonno Elio Chinol. Da qui porto lo sguardo al castello del borgo marinaro: si dice che sia stato costruito dagli abitanti stessi per mettersi al riparo dalle incursioni saracene. Ecco perché la grotta che si trova alle pendici dell’altura è stata chiamata Tana dei Turchi. Fu poi rimaneggiato più volte e ora fa parte del Polo Museale della Liguria. Avrà puntato in quella direzione anche Shelley mentre sulla sua barca scriveva il dantesco Trionfo della Vita, la sua ultima opera rimasta incompiuta, e si credeva seduto «sul lato di una pubblica via / Cosparsa di uno spesso strato di polvere estiva, e una grande folla / Di gente si affrettava su e giù, / Numerosa come le zanzare nel barlume della sera; / […] Vecchi e giovani, uomini e bimbi / Apparivano mescolati in un solo impetuoso torrente, / Alcuni fuggendo ciò che temevano, e altri / Cercando l’oggetto dei timori di un altro»? È la fiumana della vita, ciò che T.S.Eliot descriveva nella prima parte di The waste land e di cui anch’io, tra le ombre, vado in cerca.
È per un altro scherzo dovuto alla mia, a volte, liminare sensibilità che ho visto l’immagine del golfo dall’alto, come deve averla vista lui, Shelley, un tempo. Mi trovavo a Milano, dove vivevo da qualche mese, e stavo leggendo un libro sull’estate passata dagli Shelley e Lord Byron sul lago di Ginevra. Era il 1816, l’anno senza estate in cui furono concepiti per scommessa Frankenstein e il Vampiro. Altri tempi e altri paesaggi. Eppure… Lo vedo, l’abbraccio per intero con lo sguardo. È un’immagine, dapprima, in bianco e nero e io la percorro a volo d’uccello e mi ritrovo in un interno. Fa caldo. Fuori sento le grida dei bambini che giocano e lo stridio dei gabbiani. Riempiono tutto lo spazio. Non vi è altro che questo vibrare di una vita che non si quieta. E il mare. L’odore del mare, l’afa salsa che, rincorrendosi, strane ombre cavalcano per scivolare sulle pareti. Tutto quel gridare nella penombra. L’ angoscia vi si acquatta dentro. Insopportabile. Un senso di perdita che implode come una lagna inesprimibile. Il silenzio del dolore che impala mentre l’incertezza avanza e si fa minaccia non formulabile. Il presagio di sentire la sventura che si avvicina, l’incubo di ombre che si disegnano sui muri bianchi, di quelle voci ovattate, le voci bambine, che ridono sulla spiaggia abbacinante, tutto quel bianco, quel tormento, le parole rincorse, gli amori sfibrati, i sogni, l’insonnia, i mostri, quel chiedere pietà, quel non poterne più e la morte che avanza, crudele, che chiede, esigente.
Ho pianto per un giorno intero quando sono riuscita a lasciare la visione che mi stava strangolando. Sapevo di essere stata nella casa bianca sul bordo dell’acqua, quella che un tempo non era separata dalla spiaggia, come è oggi perché divisa dalla strada che unisce Lerici a San Terenzo passando davanti a villa Magni. Sapevo che era l’agonia di Mary che avevo vissuto senza averla cercata per una connessione diretta e che a lungo ho maledetto. Sentire ciò che non si chiama, scorporarsi per ricomporsi in un corpo altro, che è strazio. Perché era successo proprio così: lui era sceso dal promontorio e lì si erano accasati, nella villa bianca. Erano tutt’uno, la casa e il mare, erano tutt’uno lei e Claire, la sorellastra che aveva avuto un figlio da Byron, in quei sogni spaventosi, in quel condividere letti, sentire corpi e musiche di versi, l’elevazione dell’anima che cerca estasi negli alberi, in un’allodola, nella faccia argentea della luna, in rapimento di sensi, in distorsioni d’amore e di laudano.
«Troppo felici quelli il cui piacere/ estingue ogni senso e pensiero del rimpianto/ lasciato dal piacere, distruggendo/ soltanto la vita, non la pace», intuiva Percy Bisshe nei Versi scritti nel golfo di Lerici.
E poi si fece la morte, si avvicinava a falcate veloci, sfruttava i venti e arrivava ridendo feroce – e Mary sempre ne aveva avuti di morti. Una catastrofe. Eppure resisteva.
Questa è la storia che si racconta e si sussurra. Questo è quello che io non ho potuto fare a meno di ascoltare. A Lerici, la bella Lerici, culla di una sventura che non termina.
Ma perché questa terra, questo mare, perché costringerli ancora a dire, a tenere aperta, come un marchio, questa ferita, la carne come stigmate che sanguina? Ed è come se non avesse mai fine: uno spettro, una dannazione che basta andare poco oltre la superficie di un golfo che è estate e bagni, che è struscio della sera, sono le giostrine su cui salgono i bambini abbronzati e urlanti, sono i ristoranti, i bar, gli aperitivi e le barche, sono il gusto del pesce e i calzoncini corti, è l’amore facile sul lungomare, gli sguardi, le labbra salate, i teli sulla spiaggia e i gelati; basta andare poco oltre questa patina leggera per sentire quel corpo in fondo al mare e lei che aspetta e già sa, lei che dovrà testimoniare, lavorare, per lui e per sé; lei che aveva già scritto di mostri, che sapeva dell’orrore di generare corpi e parole: Frankenstein era il suo bambino, quell’essere orribile eppure così fragile, e poi abbandonato, deriso, scacciato - tu mostro! - ma lui stava nascendo al mondo e ancora non sapeva - «Avrei dovuto essere il tuo Adamo, e sono invece l’angelo caduto che tu hai allontanato dalla gioia senza colpa alcuna da parte sua». Mary Shelley disperata. Mai sposa appagata, mai madre felice, mai donna che possa sentire suo, solo suo, quell’uomo che scrive, sperso nei boschi, con lei e altre - quante altre? - gettato a terra a interrogare gli astri, intimo con le melodie di uccelli che sono estasi e ascesi, che sono tutto il dio che si possa sperare. Lei non è lì, lei è nella morte, nella ricucitura dei cadaveri, nella sutura degli arti, nelle necrosi di un amore che l’ha sventrata.
«La bellezza del luogo pareva irreale per il suo stesso eccesso: la distanza da ogni traccia di civiltà, il mare ai nostri piedi, i suoi mormorii o il suo ruggire sempre nelle nostre orecchie - tutte queste cose inducevano la mente a meditare su strani pensieri e, sollevandola dalla vita di ogni giorno, la portavano a familiarizzare con l’irreale. Una sorta di incantesimo ci circondava», scriveva Mary. Strani, strani pensieri potevano pensare durante il loro soggiorno, isolati sulla lingua di spiaggia che era un tutt’uno con la villa, l’acqua che lambiva la loro ultima estate insieme, e il terrore che la notte veniva su dal mare e parlava di lugubri sogni, di apparizioni, di volti bianchi come lenzuoli, di tragedie bagnate - annegò quell’uomo, annegò poco lontano, pensando di poter cavalcare le onde e di far tacere la tempesta, ma la donna non si diede per vinta e rimase lì per giorni a scrutare lo scuro orizzonte aspettando che il giovane mostrasse le vele che invece sventolavano, ormai lacere, negli abissi del mare.
Vita difficile, quella di Mary, attanagliata dalla morte fin dalla nascita - la madre muore pochi giorni dopo il parto - e così fanno i suoi figli: una prima senza nome, morta in pochi giorni e ritrovata esanime nella culla; Clara e William morti a pochi anni a Venezia, la prima, e a Roma, l’altro; Allegra, la figlia della sorellastra Claire, morta anche lei; e poi gli amici, i familiari, tutti: la sorella, ritrovata in un albergo di Swansea con una bottiglia di laudano in corpo; l'ex moglie di Percy restituita dal Serpentine di Hyde Park a Londra; Polidori, il medico di Byron, l'inventore dell'altro mostro, suicidatosi con l’acido prussico con cui amava dilettarsi; il marito disperso nella tempesta; lo stesso Byron stroncato dalla meningite, in Grecia, due anni dopo. Una catastrofe. E poi l’estrema sensibilità di Shelley - tesa fino al limite del normale - le droghe, il laudano, le visioni, l’immersione totale nella natura, quella ricerca del sublime, il suo giocare con la darkness, il lusingare il demoniaco e lo stuzzicare la morte così da vicino. Una vita faticosa, vorace e insaziabile iniziata con il fascino di una madre femminista e rivoluzionaria e di un padre filosofo che aveva teorizzato l’amore libero ma che aveva ostracizzato la loro unione e l’aveva ripudiata. Mai un attimo di quiete. Mai. E i mostri della mente partoriti in notti dominate dagli incubi, Frankenstein, il suo corpo ricucito dalla morte quando Percy Bysshe era ancora in vita, seme e tomba. Un'unione complessa, difficile, tutta da guadagnare.
Eppure lei resisteva e andava avanti. E scriveva. Raccontava, testimoniava, viveva con l’unica gioia rimasta: il sopravvissuto Percy Florence.
Ecco cos’è successo.
Ci ho messo del tempo per entrare in quella casa. In una delle mie permanenze a Lerici ci sono solo passata davanti. Un’interferenza nella testa, l’apnea, la disconnessione. Ho dovuto sedermi sul muretto davanti al mare. Stare a respirare per un tempo necessario a mettere confini, solo uno strato di pelle. L’anno dopo però mi sono fatta coraggio. Alcuni eventi del Lerici Pea si svolgevano proprio lì e io non volevo mancare. Ecco allora il portico sotto le arcate, la sala d’ingresso con lo scalone che porta alle stanze del primo piano dov’erano le camere da letto e il salone con la grande terrazza. Mary ce ne ha lasciato un piccolo disegno nella tormentata lettera a Maria Gisborne dove racconta gli ultimi giorni prima della tragedia. Leggendola e leggendo altri scritti ho avuto la conferma di esserci stata davvero già prima di entrarci. Comunque sia, per Shelley era stato un periodo di grande benessere, anche se tormentato dalle sue non infrequenti visioni. Quella, ad esempio, che una notte aveva svegliato Mary quando era piombato nella sua camera urlando. Lui raccontò che Edward William gli aveva detto di affacciarsi alla terrazza e lui aveva visto il mare invadere la casa. Dopodiché si era messo a strangolare la moglie. Un incubo, ma Percy Bysshe parlava di visione a occhi aperti. Mary era sempre più inquieta, oppressa da un presentimento di tragedia, ma non immaginava si riferisse al marito. La stessa Jane Williams aveva avuto un’allucinazione, lei che non era soggetta a questo tipo di straniamenti. Insomma, una volta dentro casa Shelley temevo che si sarebbe palesato qualche altro segno, stavo in allarme. Ma non successe niente. Solo per un momento il temporale ha infuriato facendo sventolare le tende della sala. Si è sfogato mentre le conversazioni poetiche continuavano benevole. Ad un certo punto, però, durante una pausa tra gli eventi, risalendo lo scalone ho avuto il desiderio di aprire una delle porte che conducono all’ala delle camere. L’ho fatto. Dentro c’era qualcuno e la stanza era invasa di vestiti e scarpe buttate sul pavimento alla rinfusa. Ho richiuso in fretta. In un attimo di sospensione ho pensato a loro, ma poi ho compreso che erano turisti che avevano affittato la stanza. E così, un po’ vergognosa e un po’ divertita della mia bravata, sono andata sulla terrazza ad ammirare lo scenario superbo che per un breve periodo si è disposto ad accogliere vite straordinarie che ancora oggi ci affascinano e gettano il loro incantesimo su menti bislacche come la mia, che ora se ne va raminga sul lungomare di San Terenzo, più disteso rispetto a quello di Lerici, fino all’altro castello che fa da vedetta alla baia. Sotto, una piazzetta su cui un tempo venivano tratte in secca le piccole barche, e magari anche oggi, in periodi di minor afflusso turistico. Lì c’è un’ultima ansa da aggirare, la strada infatti non termina con i grossi massi che chiudono la piazza ma gira, fa un’altra piroetta. Epperò, poco più in là si ferma, sbarrata da una frana. Questo il limite che non posso varcare, qui finisce il mio viaggio e si conclude un capitolo letterario. Epperò li sento forti e chiari, quei versi scritti per Keats ma perfettamente riferibili allo stesso Shelley: «Il soffio la cui potenza ho invocato nel canto / Discende su di me; la navicella del mio spirito è portata / Lontano dalla riva, lontano dalla tremante moltitudine / Che mai diede alla tempesta le sue vele; / La terra massiccia e gli sferici cieli sono infranti! / Mi sento portato oscuramente, paurosamente lontano, / Mentre ardendo attraverso il più profondo velo del Cielo, / L’anima Di Adonais, come una stella, / Mi guida con la sua voce dalla dimora dove stanno gli eterni». Si alza allora il vento, io ricordo quell’altra Ode e sussurro: «Spingi i miei pensieri morti sopra l’universo, / come foglie secche a ravvivare una nuova nascita! / E con l’incantesimo di questo verso, // spargi, come da un inestinto focolare / cenere e scintille, le mie parole fra gli uomini!».
Rossella Pretto