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Viaggio in Scozia alla ricerca di Macbeth

C’è un’aria di ferro nell’alba fredda che tenta di farsi largo tra le strade bagnate di Glasgow. Devo raggiungere la sua tomba, quella che si dice sia la sua tomba. A Iona, St. Columba Abbey, estrema propaggine scozzese. Al di là di Oban, al di là dell’isola di Mull, dopo lo stretto braccio di mare che lambisce Fionnphort. Scesa dall’albergo, ho raggiunto il bus che mi ha portato a Queen Street Station, da dove sto partendo per Oban senza riuscire a trovare il mio posto a sedere. Difficile capire il locale sistema di numerazione dei posti, anche se chiedo al controllore. Vago per le carrozze smarrita. E finalmente raggiungo il sedile prenotato. Un’impresa, come trovare il proprio posto nel mondo e io lo sto cercando tramite Macbeth, una delle tragedie più fosche di Shakespeare, materia della mia tesi incentrata sulla messa in scena della ‘Compagnia dei Quattro’ e stoffa delle mie ossessioni da allora. Non è solo perché mio nonno, Elio Chinol, l’ha tradotta appositamente per loro nel 1971 con gran successo di pubblico, tanto che una delle numerose recensioni titolava “Macbeth batte il Cantagiro” - una lunga tournée, con varie riprese, e un adattamento per la televisione - e dunque fa in qualche modo quasi parte del mio patrimonio genetico; piuttosto, essa contiene il dubbio che scuote ogni mente pensante, a mio parere. Essere o agire? Il cammino di Macbeth viene intercettato da tre streghe che gli profetizzano il trono. A quel punto, il generale leale, vittorioso e altresì preda degli incantamenti della sua immaginazione, che cosa deve fare? Aspettare che il destino si compia o forzare il corso degli eventi? Se tutto fosse già stato scritto non si dovrebbe far altro; ma se il vaticinio, invece, inerisse al mondo delle possibilità e avesse bisogno della mano dell’uomo per avverarsi? Tutto questo, in definitiva, ha a che fare con la condizione umana, con la scelta tragica per eccellenza. Come esperire in pieno la potenzialità che le è propria? E in quell’interim il gelo, la paralisi.
 

Ho incontrato il Portiere di Macbeth sul bus che mi ha portato in città. Lo sussurro tra me e me forse per socchiudere l’uscio e autorizzare chi deve entrare. Saranno suggestioni, casualità, o forse niente significa niente. Si tratta però di comprendere qualcosa che dia valore alla propria storia anche in relazione a un personaggio che torna a interrogarci. Macbeth è un generale integro, apparentemente. Perché si perde nel dedalo della mente e del dubbio: perché tergiversa o invece perché esce dal seminato che il Fato impone? O magari perché oltrepassa la soglia di ciò che è lecito? Dopo aver incontrato le streghe che lo salutano re, Macbeth si fa convincere dalla Lady a non metter tempo in mezzo tra la profezia e il suo compimento, e così uccide il re Duncan e diviene sovrano. Ma il sangue chiama sangue, lo sappiamo, e il potere genera mostri. Se tutto finisse una volta fatto, allora sarebbe bene / Che fosse fatto subito. Se l’assassinio potesse / Trattener nella sua rete le conseguenze e con la morte / Di Duncan trionfare, così che il colpo inferto / Fosse qui il principio e la fine di tutto, / Qui, solo qui, su questa riva e secca del tempo, / Saremmo pronti ad arrischiare la vita eterna, dice Macbeth. Non c’è fine alla discesa nel male. Quella corona insanguinata atterrisce e tormenta. Meglio essere con i morti, / Che per conquistarci la pace abbiamo reso alla pace, / Piuttosto che nella tortura della mente vivere così / In un delirio senza tregua, afferma qualche scena dopo. Bisogna fermarsi. Ma qui il treno corre verso la sua meta, la cittadina di Oban. Il velo compatto del cielo pesa su laghi e acquitrini. E manciate di terra nera sembrano gettate sulle loro sponde come grossi semi sparsi da un contadino. Poi il paesaggio comincia a corrugarsi e appaiono le prime alture con i boschi appuntiti. Il viaggio impone la rinuncia a paura e abitudine. Si rinuncia alla comodità per penzolare sul ciglio dello sconosciuto. Da diversi giorni mi frulla in testa la parola ‘aderenza’. Mi sembra chiaro, a questo punto, che la corona di cui vado in cerca non sia altro che questa aderenza all’esistenza, istante per istante. E allora ci provo e guardo ancora dal finestrino del treno in corsa. C’è qualcosa di molto verde, e qualcosa di rosso; qualcosa di contorto e qualcosa di bagnato: strisce di Scozia, orizzontali come le brume, lame di un esistere nordico che non disdegna le altezze, ma le allinea e le allunga in terra che si distende, fango e acqua, felci e muschi, laghi intagli pozze di incoscienza che hanno porte e varchi. T- TN / T -TAN, fa il treno in mezzo a questi boschi: i fiordi che mi entrano nel fianco, da destra; i rivoli d’acqua che, da sinistra, marciscono le felci inzuppate. E un pietrisco rosso mattone, lustro e occhieggiante, in lotta per il predominio dello sguardo con il verde degli alberi e il blu delle stazioncine che si aprono all’improvviso nelle radure di questa West Highlands Line. A cavallo dei monti, ora, ci inerpichiamo mentre una signora dalla zazzera d’argento tira fuori dal suo zaino dei gomitoli colorati, segno e premonizione di altri incontri, quel dipanarsi dei fili, coacervi di intenzioni e sovrapposizioni di tempi. Piange la roccia, laggiù, fuori dal mio scompartimento, e sono caterve di acqua che sembra cadere al ralenti per poter meglio incidere le unghie sottili sulle gote nere di queste rocce. E ancora e ovunque felci, tutte in fila e spettinate dal treno al trotto. 
 

Non mi sono mai chiesta in quale periodo dell’anno si svolgano le vicende di Macbeth, ma lo posso intuire. Non è l’estate del suo scontento, come per l’altro micidiale tiranno omicida, Riccardo III. Sarà autunno inoltrato, inverno. Stagioni di lotte sovrumane, in quelle terre, a quei tempi barbari. Chissà che vita fanno, quelli che abitano queste lande, chissà che vita facevano, quelli che le abitavano centinaia di anni fa. Me lo chiedo come non lo sapessi, come non sapessi che vita faccio, rintanata nello studio. La differenza sta nelle chiusure, nelle ritrosie, nella volontà di aprire un sorriso diffidente e il cuore mai, pur nel bisogno: di compagnia, di un compagno. Io ci provo raccontando gli antefatti mentre cammino e scendo dal treno e, dopo aver attraversato i miei acquitrini, mi dirigo all’imbarco e vado in cerca della biglietteria per acquistare il diritto di passaggio sul ferry insieme al diritto di solcare queste acque. La cittadina di Oban si stende poco più in là; questa è la zona portuale, con i suoi edifici a cubi moderni e poi tanti attracchi che sembrano tutti uguali e i cartelli da seguire per non sbagliare destinazione mentre un sole di fine ottobre sfilaccia le nuvole e i loro cumuli densi. È questo un dono che devo trattenere il più a lungo possibile finché il mare ne amplifica i riverberi. Altri grigi mi attendono a Craignure, insieme al bus che traversa l’isola spopolata. Disperse in piccoli agglomerati, le case resistenti siedono di contro alla natura che signoreggia muta e altera nel suo aspetto più sacrale e perturbante. Strati di silenzio nemboso si aprono davanti alle grandi finestre dietro cui tutto è immobile, congelato. La vita dov’è, mi chiedo. E ancora: che cosa ci faccio qui, io che amo il sud e i suoi colori? Il nervosismo mi porta fino a Pennyghael: una barca incagliata nel fango; la fila di casette lungo la strada e in giro nessuno, solo un ragazzo che tenta di fumare la sua sigaretta e non si sa dove vada. E sparisce, si perde. Il bus invece è pieno di donne, donne senza uomini, torme di signore ciarliere che si sono date appuntamento a Oban, ognuna da un punto diverso, intuisco. E io sola, a domandarmi se qualcosa abbia senso. Fatto sta che il bus ora mi deposita su una baia abbandonata dove campeggia un toro. Sarà un toro, mi dico, quello che sembra uscito dal mare e se ne sta ora imperioso a presidiare la spiaggia deserta. Questo il segno che mi tocca in sorte appena metto piede a Fionnphort e guardo in direzione del mare. Solo lui che giganteggia a pochi metri d’aria da me, inquietante e stupefacente nel suo riempire lo spazio fino a renderlo palpitante e distorto come un sogno. Si dice che la terra abbia tremato come sconvolta dalla febbre, afferma Lenox prima di scoprire l’orrendo delitto consumato tra le mura del castello macbettiano, dove la malefica coppia ha ucciso il re e imbrattato di sangue le mani dei servi perché ne siano incolpati. Da quel delirio febbricitante sono fuoriusciti mostri, la natura si è ribellata. E il corpo di Duncan sarà portato a Colme-kill. Che non è altro che Iona, quella lingua di terra che vedo poco lontano dalla costa. Lì è sepolto Duncan, secondo Shakespeare. Lì riposa Macbeth, secondo altre fonti. Per oggi mi accontento di guardarla da lontano e mi dirigo al mio bed-and-breakfast, il Seaview. Percorro a ritroso la stradina, la stessa che taglia l’isola da un capo all’altro, invasa dalle pecore che pascolano indisturbate mentre i corvi volteggiano e si posano zampettando sull’erba. Al Seaview mi accoglie il padrone di casa, gentile e un po’ intimorito dalla mia aria spaesata. Mi dà subito indicazioni precise sull’unico posto aperto dove mangiare, il pub a due case di distanza, The Keel Row. Qui si cena presto o non si cena affatto. Altrimenti bisogna attrezzarsi tramite il negozietto a fianco dove si trova un po’ di tutto, anche il bancomat e l’ufficio postale. Ho intravisto un fish-and-chips, poco più avanti, ma in questa stagione è chiuso. Ultima alternativa il bar dell’imbarco, qualche panino, qualche dolcetto, ma tutto ridotto al minimo: i turisti si conteranno sulle dita in questo scampolo d’autunno. Per la colazione, invece, mi mostra la sala con un grande tavolo dove sedersi tutti insieme e una vetrata aggettante che sembra slanciarsi sulla baia. E infine, al piano di sopra, la camera deliziosa e calda, dove mi ritiro a raccogliere le idee aspettando l’ora giusta per scendere al pub.
 

L’indomani c’è vento, vento che trascina e freddo pungente, acqua che vola e si attacca alle ossa. Il sole, se c’è, è dietro a tutto questo grigio; il sole, se c’è, splenderà lustro a forza di vento. Appena poche centinaia di metri mi dividono da Iona, e il mare, scosso, rabbrividisce. Doveva essere urlo e tuono, questo viaggio. Il copione recitava così: «Highlands. Limite estremo prima dei ghiacci, in cui la terra si frastaglia in catene montuose e valli profondamente incise dall'erosione dell'acqua e del gelo. Terre brumose dove il sole sfugge e si condensa in una fitta nebbia fessurata da lampi. Lineamenti affiorano dal buio di un interrogativo. Siete esseri viventi? O spiriti a cui l'uomo può parlare? Un indice rugoso, poi un tratto di viso scavato. E un labbro smunto che articola parole come fossero destini decretati da confabulanti Moire antropomorfe. Si rivedranno ancora prima che il sole tramonti sulla brughiera, quando tutto sarà avvenuto e il futuro di un uomo chiamato Macbeth sarà definitivamente stregato». Dunque Highlands, dovevano essere, non Ebridi, ma lande e urla, distese infinite nutrite di fantasie e pianti. 
 

Salgo sul ferry e la terra si avvicina in fretta: solo pochi minuti di traversata. Il sole si fa largo e colpisce la facciata di una casa che avvampa contro il residuo piombo del cielo. Il verde dei prati si fa tutto d’un tratto coraggio e scarica la sua intensità nel prodigio di un colore nutrito dall’acqua che lo rimpingua e lo spinge a farsi ardito, sempre più. Le nuvole corrono a ripararsi dalle frustate del vento, sciamano lontano nella clessidra di questo nostro tempo veloce. E io sbarco. Una lingua di cemento mi separa dal paese lì raccolto, con la sua fila ininterrotta di cassette tutte uguali, sulla destra, di un marrone rosato: la sua morbidezza che stempera le cuspidi delle finestre del primo piano come tante frecce schierate in prima linea a fronteggiare il mare, le sue delizie e i rivolgimenti. Inizierà a giorni la stagione della resistenza tenace e dei radi contatti; i collegamenti con Mull si interromperanno, se non per i rifornimenti. Perché i re venivano sepolti qui, separati dal mondo? È chiaro che questo era un luogo altro, speciale, ma perché proprio qui e non altrove? Mi incammino, ma faccio presto a fermarmi ed entrare in quel che resta del convento fondato intorno al 1200 e che ha prosperato per circa 350 anni. Le rovine sono talmente curate e fiorite che sembra che la mano femminile, con tutte le sue arti, non abbia ancora abbandonato il luogo. E forse è davvero così. Un praticello fitto viene interrotto solo dalla striscia fangosa che indica il percorso dei piedi, battuto e ribattuto sempre nello stesso punto. Non ho mai visto colori tanto intensi e luminosi, quell’urto che si risolve in armoniosa quiete. Quanto azzurro, ora, tra mare e cielo, quanto verde, rosa, rosso. E le pietre che sorridono beate, riscaldandosi e accumulando calore per l’inverno imminente. Qui venivano accolte zitelle, vedove, figlie illegittime e mogli ripudiate, molto spesso appartenenti a famiglie nobili. Passavano il tempo raccogliendosi in preghiera e amministrando le terre: non una vita di povertà e reclusione ma fervida di contatti con il mondo. Accanto alla Nunnery sorge Iona’s Abbey, il monastero fondato da St. Columba (o Colum Cille) che, partito dall’Irlanda, da qui cristianizzò la Scozia e qui, sembra, produsse quel capolavoro che è The Book of Kells, il Vangelo miniato ora custodito al Trinity College di Dublino. Le monache agostiniane vivevano dunque a pochi passi dai monaci benedettini, conducendo una vita all’insegna dello scambio dei saperi. 
 

Tra la Nunnery e la Iona’s Abbey c’è uno scalcinato cimitero. Devo cominciare da qui la mia ricognizione? La stradina di terra battuta e fango è solo una strisciolina che interseca pericolosamente la terra dei morti. Dovrò leggere nome per nome? Non è della prova tangibile che vado in cerca e non cerco il sovrano storico ma quello shakespeariano, che tanto si discosta dal suo ispiratore originario. Ne ha avuto in cambio immortalità - nome e saggezza calpestati, il destino deviato - ma la fama è salita alle stelle, o meglio, è scesa fino all’inferno. Voltati, cane dell’inferno, gli dice MacDuff, il signore di Fife a cui il tiranno ha sterminato la famiglia, quando finalmente lo incontra sul campo di battaglia e lo affronta, svelandogli gli inganni del demonio che ambiguamente l’ha condotto fuori strada. Macbeth è come il dantesco Cerbero, che fiera crudele e diversa, / Con tre gole caninamente latra / sopra la gente che quivi è sommersa; ed è stato ingannato dalle streghe, qualunque cosa fossero. Parlo del Macbeth shakespeariano, il cui originale è stato riplasmato da una mente che se ne è servita per costruire un paradigma eterno: quello del potere che genera mostri. D’altronde la discordia interna, nella Scozia di Shakespeare, come nel Purgatorio dantesco stavolta, è associata a una donna che non trova requie nel suo sonno. Una donna come la Lady, sinonimo di conflitto e sonnambulismo. Ma non solo, Lady Macbeth è in qualche modo anche signora delle streghe e dunque portatrice di un diverso e inquietante ordine di sapere, per alcuni. Era stata lei, all’inizio, a presentire il respiro imminente del futuro, a comprendere come fosse necessario non porre tempo in mezzo tra pensiero e azione. A prestare corpo e spirito perché l’opera venisse compiuta e dimenticata. Donna potente e disperata, la Lady ad un certo punto non ha però trovato più ascolto, nonostante avesse fatto da tramite affinché il desiderio occulto del marito potesse venire alla luce. Un rapporto vampiresco che ha richiesto infine un taglio che ha condotto i membri della coppia alla solitudine più estrema e dunque alla tragedia. Mi chiedo dove sia sepolta, ma non avrò risposta. Lei aleggia insieme alle streghe, vaga e appare/scompare, si manifesta ed evapora perché la terra, come l’acqua, ha anch’essa le sue bolle d’aria, e tali erano quelle, afferma all’inizio Banquo, dopo la sparizione delle tre streghe. E Macbeth prosegue: E quel che sembrava corporeo / S’è sciolto come fiato al vento. C’è però da dubitare della loro presenza, se Banquo afferma: Ma esistevano davvero quelle strane creature, / O non abbiamo mangiato della radice malefica / Che fa prigioniera la mente?
 

Mi avvicino ora all’abbazia, uno spettacolo di austerità con le sue nere pietre di contro ai colori sfolgoranti del lustro autunno scozzese. Attraverso il prato, salgo sulla collinetta prospiciente, lo respiro e ridiscendo, tutto con lo sguardo. Entro e percorro la lunga navata. Laggiù, oltre l’appuntito arco, un incendio di luce mi attende e, mentre giro per il coro, le parole: «il Signore è il mio pastore; ho tutto ciò che mi serve… Anche nella più profonda oscurità, non avrò paura, Signore, se tu sei con me...». Mi dirigo allora alla vetrata dedicata a Colum Cille e poi al chiostro, verso le sepolture. Decido di fare un gioco, poiché non vi è traccia della tomba di Macbeth. Passerò accanto a ognuna d’esse e proverò a coglierne il palpito. Se è qui parlerà, si farà vivo. Giro e giro senza guardare nomi e date, giro ancora. Niente. Qualche alitata, brevi e incomprensibili strattoni. Ma cosa sto facendo? Non è questa la risposta. Torno al mare, ai colori del paesaggio, aggiro l’abbazia ed entro nel piccolo museo. Si dice che The Book of Kells sia stato composto qui impastando fiori ed erbe, polveri e metalli, fino a ottenere i pigmenti che ornano questo libro straordinario. Ma neanche quello è più qui, ormai. Dopo le temute invasioni vichinghe, è stato portato a Kells, dove ha subito varie vicissitudini ed è ora in bella mostra a Dublino. Cosa rimane, qui? Resta il cammino che ho ancora da fare, e passo passo, attraversando verdi distese, arrivo ai confini di questa terra. Bianco talco, la spiaggia a cui giungo, e turchese il mare. Voglio avvicinarmi, lì oltre quelle rocce scure. Le aggiro, gli scarponi lambiti dall’acqua. Ad attendermi c’è una vecchina tutta imbacuccata che, liberatasi delle scarpe, ha messo i piedi a mollo. 
 

Disorientata e titubante. Mi allontano discreta e risalgo la collina, mi apposto tra le erbe che si flettono docili al vento, una prateria sinuosa. E poi la vedo ancora, quella donna, che ora mi attraversa il campo visivo. Le presto più attenzione. Sembra ricoperta di strati di veli, nera e acciaccata, trascina la gamba con l’aiuto di un bastone. Punta risoluta verso un’altra piccola insenatura. Lo sguardo lontano. E capisco: qualcuno mi stava aspettando, o così voglio dirmi e mi dico. Mi rendo conto che non ho più pensato agli avi, com’era mia intenzione fare. Li lascio alla loro vita, quindi, e ritorno sulle mie tracce. In fin dei conti si tratta di incarnare non la storia degli altri ma la propria. Ho proseguito il viaggio, poi, e di donne ne ho incontrate altre, esattamente tre come le streghe macbettiane. Sono state compagne e protettrici, una sorta di guida benigna che ha vegliato il mio sonno o guidato i miei passi verso Inverness e poi Forres. Ma questo è venuto dopo. Adesso sono ancora sulla spiaggia di Iona e continuo a guardare ripide alture, zigzaganti intricate elicone di sabbia. Sono al limite del mondo, del mio forse ristretto, piccolo mondo, dove mai da sola pensavo di arrivare. Sento di essere al centro dell’universo, ben piantata sui piedi. Un’ultima domanda a Macbeth che ancora mi osserva ridere entusiasta: «Chi ho evocato?» Risponde elusivo: «Nessuno. Dimentica il Tempo». Così faccio, e inseguendo brume incarno attuali, lucenti emozioni. E tutto è chiaro, pur nel vento furioso che strappa e sfinisce. Ho oltrepassato le porte del suono, quelle del tuono. E tutto è grazia, tutto è metamorfico silenzio. Non c’è nulla da cercare, nulla da trovare: che scenda la pace; che sia resa al sovrano che qui riposa. Anche se qui non c’è, non c’è più. O c’è solo una tana scavata nella terra e una pietra senza nome: comunque riposa, dopo la febbre della vita. Riparto da quella lingua bianca di terra, dalla vecchina zoppicante - una delle sue Sorelle - venuta a immergere i piedi nel calderone spento di questo specchio d’acqua così freddo. Le faccio una foto da lontano, come poggiandole una mano sulla spalla in segno di ringraziamento. E mi sospingo a continuare perché non c’è nulla da cercare, nulla da trovare dove il silenzio ha la voce della grazia. 

Rossella Pretto

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