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Wanda Marasco, Di spalle a questo mondo

È un luogo che è mondo, un mondo così grande che non si sa se siamo ancora in grado di contenerlo – noi e le nostre storie microscopiche, ombelicali -: una torre, le sue «pietre spericolate», una casa come «imitazione di un astro» piovuto sulla terra in vicolo del Moiariello, a strapiombo su Napoli, «il viale in pendenza tra l’acanto e le ortensie», «l’androne ombroso», «una cella pensatoio», «alla fine del boschetto il punto più spettrale: la lastra di piperno incastrata nel terreno, a due metri dall’esedra affrescata dal pittore Edoardo Dalbono», il richiamo a Leopardi, mistero e condanna. Questo il teatro su cui si apre la storia di Ferdinando Palasciano, medico originario di Capua che ha speso la vita per onorare l’ideale della cura, perché «nello iato tra il medico e il soldato aveva scelto l’innocenza della ferita», precorrendo i valori alla base della fondazione della Croce Rossa, nell’ultimo miracoloso romanzo di Wanda Marasco, Di spalle a questo mondo (Neri Pozza, 2025, pp. 416, euro 20).  
Il sipario si alza e la scena si anima dal vuoto di un’assenza, quella del protagonista, morto già da 13 anni. Il grande cratere al centro, fondo, che interroga. 
È Olga a parlare per prima, la moglie, Olga Vavilova, creatura in fuga e svettante nella sua incrinatura, è lei a rimemorare la vicenda di Ferdinando, a darne le mosse, dall’alto delle sue lontananze. Olga ricrea perché deve “ricrearsi”, seduta nella sua camera al primo piano della torre, la stessa che Ferdinando ha fatto innalzare come rappresentazione di «una levatura morale» e «per imparare a morire». Olga compie il rito, sacro e profano, che è ripasso e perfezionamento dell’anima. «Pensa alla morte», invita Epicuro. Seneca lo ricorda nella ventiseiesima lettera a Lucilio, dove il pensare alla morte è invito alla libertà, perché «chi ha imparato a morire, ha disimparato a essere schiavo». Solo il tribunale della morte è degno di giudicare ciò che si è fatto per davvero. «Con coraggio» scrive Seneca «mi preparo a quel giorno in cui, deposto ogni artificio e ogni inganno giudicherò di me stesso». Una meditatio mortis che è anche uno spazio di affrancamento, le tappe di un percorso all’interno della Torre Palasciano, set della memoria, dove è stampata la legge: «senza l’intelligenza della morte, le cose non sono mai state vive», dove si addensano le ombre, il desiderio coagula e si «annuda», si rapprende e riempie ogni millimetro d’aria, si intrude nel vulcano e cova come una forza smisurata che si stende sul romanzo. Un tragitto di apprendimento per riuscire a recuperare «una mappa astrale, col fine di aiutare l’anima in trasmigrazione a trovare la direzione giusta». È così che il libro di Marasco diventa una «forma di addio» come «trama di vita», o meglio, quell’addio diventa stile, materia stellare che si manifesta e racconta. Ferdinando l’ha immolata, la vita, per dirsi degno del compito, eroico, nell’«ossessività dell’idea eroica», ma in cambio non gli è stato dato nulla, se non il fallimento e la persecuzione, lui che nell’ordito del sangue portava un bisogno di riscatto: dall’origine, da quella radice che da subito ha gridato: desidero e muoio, sono la minaccia di morte impressa in me dall’alba dell’esistere. Ma quando gli onori del mondo sono per davvero lontani, quando l’impegno è disconosciuto e la potenza visionaria ignorata, la rabbia affoga e la passione di quella damnatio memoriae sommerge tutto, anche la mente. L’anima cede perché non sa rappresentarsi, in quel dramma dell’imperfezione, della zoppia. Il supplizio, allora, entra e prende il centro della scena. Ferdinando viene ricoverato a Villa Fleurent, vale a dire in manicomio. Lì, il suo teatro riprende fiato nella graniglia del pavimento e in una voce, quella di Gemito, pittore e scultore di una città palpitante, malinconica e tempestosa, «maschera di ricambio» per la pena, a cui Marasco aveva dedicato un altro dei suoi straordinari romanzi, Il genio dell’abbandono, una presenza che attraversa i muri e le pagine e si sdoppia, a indicare l’intensità di un uomo, la sua volontà (e il bisogno) di «saltare il fosso di sé stesso». La pazzia è un codice segreto, una «finzione sentimentale spacciata per metodo di comunicazione», che serve a resistere, a mantenere l’alterità del tu che viene infine al dialogo e apre le porte alla creazione del mondo. Così l’esterno prende le forme di chi soffre e si sloga. Il fondale viene issato, le assi di legno scricchiolano, gli attori si truccano vestendosi della pelle altrui. Silenzio in sala. Ma no, sono i pupi a emergere dal buio, quelli che Ferdinando vede, un giorno, una domenica «scampanata» dell’estate del 1834, come «materiale psichico» in grado di denunciare la coazione a ripetere dell’esistenza. E Ferdinando pensa che «sotto le smorfie dipinte e le cuciture rozze c’era una creazione interrotta» a cui bisogna restituire l’afflato dell’istante puro, il sacro attimo dove le cose nuovamente accadono, possono farlo. Ecco l’uomo. Colui che ha in dote un destino che deve incarnare, l’uomo che trema, si impaura di fronte alla morte. L’uomo che per non soccombere deve far sua una missione: la cura che ripara i corpi. «In fondo ogni volta che aveva curato una ferita era andata così. Si era avvicinato alla carne e al sangue dicendosi che erano un deposito di illusioni, che gli spettava rimarginare tanti depositi di paure e di illusioni». Come con Olga. 
Ferdinando e Olga si assomigliano, entrambi mostrano la parte ferita del bambino, la lacerazione è il segreto in cui vivono, «stregati dalla volontà di trasformarsi in due cose nude e offerte alla grazia». Anche lei recita, lo fa per colmare quell’ammanco che gli è dato dalla nascita, dalla radice di scompenso. Recita la sua zoppia, la finge con tutta la verità del suo esistere, ben sapendo che non c’è scampo, ogni cosa tornerà. Olga lo sa ma la carne comunque urla: vuole vivere. E deve confessare. Tutto. Anche l’abiezione, il difetto, la vergogna irriferibile, lo scorno di una materia che, «presaga di abbandoni», chiede di «essere sognata» ben sapendo che, mentre vive, l’uomo perde la terra. La letteratura è questo, una forma laica di rivelazione. «Tutto si è ridotto a una confessione. Alla fine è questo che succede. Arriva il momento di confessare […] Ha parlato la mia zoppia. Ho detto, Sono Olga, sono sola e sporca, voglio andarmene, voglio possedere, voglio le lacrime che danno pace. Qualcosa mi ha suggerito di guardarmi intorno. Avrei capito che il mondo, inclusi i dolori, i godimenti, le illusioni, ci è stato dato per non morire subito, per distrarci dalla nostra essenza: una vecchia fame disposta a divorare tutto. Anche sé stessa». È un supplizio, quello di Olga, erotico e morente, e un patto, un dovere, quello di restare. Lei e Ferdinando devono restare. Nella torre, palcoscenico piantato dritto su Napoli e sul mondo: «C’è la superficie della vita e, sotto, una forza lenta che al pensiero della morte risponde con il racconto» - questo di Wanda Marasco, scrittrice superba come ormai nessuna più, narratrice capace di avvicinarci, tutti, ai gangli dell’esistenza, ai dirupi che siamo, sconclusionati e storti, dirci che «in ogni caduta c’è una purezza». Lo fa con parole insostenibili, le parole dei folli che dialogano con gli dèi, quelle dei mendicanti che «elemosinano senso e compiutezza». Immensa la sua padronanza di una lingua misteriosa, ricostruita tra italiano e napoletano, una lingua lirica e carnale, dove si incontrano «fiori rosicati», «facce illiquidite», un’altra «ossuta, inalbata da una vecchia luce», «armi fantasmate», «passi infogliati» e «colori raspati da una pioggia recente», «ombre carbonate», mentre gli alberi «schienano» a terra ombre segrete. È una sarabanda che mima il cuore pulsante della città, Napoli che «conserva una forza che ti scova tra le urla e i silenzi», una città «smarginata, pronta a franare» nell’estasi di Ferdinando e Olga, e in quel loro gesto meditato e finale che li ricongiunge, finalmente e di nuovo paradigmatici, al loro fantasma.

Rossella Pretto

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