SCRIVO PER RIVIVERE

Jorie Graham, 2040
Che cosa si deve fare perché il presente si liberi della maschera d’ossigeno che gli lascia solo l’impressione della vita ma ormai deprivata della sua possibilità? L’asfissia incombe. Che cosa si deve, si può fare? Lanciare la controffensiva avanti e indietro nel tempo per ancorarsi al passato - tramite la memoria e la sua capacità di fornire una riserva di immagini date, e cioè concrete, concretamente reali, esperibili o già esperite - e per ancorarsi al futuro, uno che sia ancora immaginabile, meglio se non immediato, dunque un po’ in là, tale da farsi visione. Perché è questo che manca, memoria e visione, oggi questo manca, schiacciati come siamo in un presente senza scampo, eterno ed eternamente ripetuto. Come diceva Antonio Spadaro su Avvenire del 5 ottobre, la visione è un atto politico.
A questo pare credere fermamente Jorie Graham, poeta americana pluripremiata, classe 1950, con quindici raccolte all’attivo e un percorso di studi internazionale, variegato, di tutto rispetto. Ad Harvard è stata la prima donna a occupare la cattedra di Seamus Heaney. «Per me la scrittura poetica è un atto di profonda responsabilità spirituale» ha detto Jorie Graham – parole riportate da Antonella Francini, sua traduttrice e curatrice dell’ultimo, denso lavoro: 2040 (Crocetti, pp.304, euro 20).
«[F]in dal suo debutto nel 1980, [Graham] ha affidato alla parola poetica il compito di essere un ponte fra la mente e il mondo facendo riemergere i fatti storici dai meandri misteriosi della coscienza, filtrati dall’immaginazione, per disporli nelle sue coinvolgenti strutture formali e sperimentazioni stilistiche, diverse da un libro all’altro» scrive Francini nella sua bella e ben argomentata introduzione, chiara. Essendo ponte, la parola poetica deve sorreggere chi vi transita sopra, attraverso, chi la leggerà in un tempo futuro (è una lettera aperta al 2040), e deve adattarsi alle spinte e controspinte della Storia, quella individuale e quella di più ampio respiro, deve quindi essere elastica, deformabile, deve sostenere il peso e saperlo scaricare. Ad essere ponte è sia la poesia sia il poeta, che si assume l’onere di scegliere e farsi trapassare dall’immagine adatta a portare il messaggio più in là possibile. Quale messaggio?
Ma c’è urgenza, sembra dirci Graham. Non c’è tempo da perdere. Così inizia 2040, con una fretta che spezza il respiro (e frantuma il verso). Il primo componimento che, come gli altri, ha il titolo sintatticamente legato al testo ci immette da subito nella concitazione dominante:
«SIAMO // già estinti? Chi ha / la mappa. Posso / guardare? Dov’è il mio / titolo. È verificabile // la mia storia? Ho / incluso la memoria / degli animali? Le memorie / degli animali. Sono // ancora qui loro? Siamo // soli? Guarda / spuntano / i filamenti. Di memorie. Di chi? Com’era / la terra?».
Sembra di intravedere Ismene che corre a interrogare Antigone, ansiosa di agganciare la storia di loro due sorelle a qualcosa che non frani. «È verificabile // la mia storia?» scrive Graham. Tutto si perde, nessun rapporto è del tipo conosciuto, bisogna recuperare dettagli, elementi sparsi che permettano di ricostruire un quadro plausibile, c’è un passaggio da compiere – bisogna lasciarsi andare, accettare di farlo, abbandonarsi alla perdita di sé, farsi trafiggere dai flussi di ricordi senza poter dire di avere una forma:
«Siamo un riflesso // ora. Dov’è ciò che // riflettiamo Perché / ci ha lasciati qui. Vecchia / storia, hai chiuso con noi? / Ci hai lasciati in questo flusso // di memorie ora senza / ragione, senza / trama».
Come riflesso, la nostra storia è frammentaria, viaggia per lampi, «Nessuno può dire intera la storia». Vero, il Novecento è passato e la sua onda ha sciacquato via tutto.
Eppure «Questo / viene ricordato. Anche / mentre si cancella non / cancella la cosa // che era. E che ci diede».
Il tentativo è quello. «Dove // trovare il limite. Il / raro ineffabile / limite. Sotto / i numeri. Tramite e dietro // alfabeti e il loro brulicante alveare – qui, / in queste lettere». Nell’attesa che torni a cadere la pioggia, con i piedi posati sulla terra desolata, la terra guasta e cariata dalla sete di eliotiana memoria.
La pioggia è qualcosa di generativo, anche qui, che si fa largo e non tramonta. Ma bisogna conservare le parole come seme. Attendere. Tornare a guardare indietro per trattenere le cose, sperare di riavere il tempo e la sua spezzatura, avere un cuore, sentire, accorgersi. Non sei nel tempo sei nella storia, dice Graham nella seconda sezione della raccolta, quella in cui emerge forte la vulnerabilità del suo corpo stremato dalla chemio e rispecchiato nella vulnerabilità del corpo geopolitico.
Ma è la parola a dover essere custodita, perché la parola conserva uno spazio di mistero inaggirabile, in cui può germinare il nuovo – parole già usate che sprigionano nuovi significati e mostrano cose come mai viste, mai provate. La scrittura è un codice, si conserva e viaggia, si inabissa e riemerge - nel buio dei secoli, nell’oscurità di un tempo cattivo in cui imperversa l’odio e la stupidità dei potenti che distruggono la terra, che causano siccità e incendi, se ne fregano dell’innalzamento delle temperature, fanno la guerra e ammazzano la democrazia, banchettano sui corpi dei migranti annegati e sterminano un popolo per costruire resort per miliardari imbecilli. 1984 ce ne aveva dato un assaggio.
Sappiamo per esperienza diretta come le tirannie agiscano per svuotare il linguaggio, impoverirlo, impedirlo, fino a farci atrofizzare il cervello, a renderci schiavi contenti e rimbambiti. L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup ce lo ha dimostrato ancora. C’è chi agisce sulle strutture linguistiche per colonizzarci. Non è più tempo di corpi, è tempo di virtualità che nasce nel desiderio e si fa sangue nella parola svuotata e nell’inerzia. Dobbiamo prepararci, equipaggiarci. Nascondere sotto strati di cerone l’intenzione della resistenza, naufragare per passare di livello. La morte per acqua.
Il passaggio di cui si parlava sopra si compie “In realtà”. C’è un fiume, la sua malia, il suo denso, soporifero serpeggiare (ricorda il Cuore di tenebra, quel miasma) e poi:
«Il fiume in secca. / Vedo pesci sulle rive senza uccelli. / Cuore umano, mi dico, cosa ci fai qui, questo è troppo / per posarci / lo sguardo. / […] Ho pronte le storie che ci serviranno. / Capisco gli arrivi e le partenze, le chiamiamo dolore. / Ed è allora che vedo finire il fiume. / Il crepuscolo batte sul suo argento. / Penso sia un jackpot. / L’acqua è ridotta a una manciata di gioielli / sparsi qui e là su miglia di sabbia secca. / Ecco tutto quel che ricordo. / Poi la chiglia cozza e sono dolcemente ribaltata / come fossi completamente & finalmente / sgorgata. / Mi dicono le crepe nella sabbia lungo il letto del fiume / di alzarmi raccogliere / ciò che possiedo. Mi dicono di sbrigarmi & unirmi alla fila, / prendere il mio posto, preparare / il biglietto, & se ne avrò l’occasione / scegliere / di scomparire. […] Fu così che arrivammo a non raggiungere l’oceano. / Fallito il flusso. Fallita la direzione. L’acqua di superficie s- / comparsa. Superficie / secca. Ricordo la primavera, sorgenti, precipitazioni, onde. / Vedo ancora correnti / avviarsi – il dolce taglio nella terra di / canali, meandri. Ricordo le / anse. Le mani / nelle sorgenti, / acqua di falda. Il lento delicato sventagliare / del bacino. La foce, la confluenza, / i traguardi a valle - / il delta – sedimenti – marea - / mare».
È uno sbocco, dopo la trasfigurazione o reincarnazione, una sorta di interregno o guarigione, chissà, le anime che si incanalano e raggiungono il fiume, vi transitano e in qualche modo si bagnano in quelle acque avendo girato la ruota del tempo per mille anni così che «l’anima desideri tornare carne e ossa / sotto la volta del cielo» scriveva Seamus Heaney traducendo Virgilio. Ma i valichi e gli attraversamenti sono più d’uno. Si susseguono anche nella terza sezione – ne “La quiete”: «Ora non sono ancora nata. Forse sono in attesa / nel canale. Mi sentite, / dico di nuovo. Qui stanno somministrando un farmaco. / Vogliono che mi unisca alla / razza / umana. Non c’è più tempo. / Affrettati dicono. Una fretta diversa da quella che / conoscevi / dicono» – le metamorfosi continuano finché non arriva la “Coda” con la pioggia, finalmente, tutta eliotiana. Così come la sua eco si avverte altrove e anche in “Arco temporale”:
«Guarda / dice, ci sono / due destini. Uno è l’idea uno è il luogo. / E ovunque vedo acqua. / Come nella benedizione? Come nel battesimo? / Come nella rinascita? No, / come campi che scompaiono sotto il mare». Qui tutto congiura per far tornare alla mente “Little Gidding”, l’ultimo dei Quattro quartetti eliotiani, dov’è l’intersezione dell’eternità col tempo. Un pellegrinaggio dove la preghiera ha funzionato. Non a caso 2040 termina con la poetessa che alza le mani al cielo in una riappropriazione delle cose che è insieme laica preghiera e giubilo. Ora può finalmente tornare a toccare tutto, mettendo in ogni cosa la faccia.
È uno splendido viaggio, molto rischioso, un tentativo – tornando a Eliot – ma l’unico possibile. È quello della Poesia che deve svuotare di significato il consueto per aprirsi all’inarticolato ancora pullulante di spirito, dove si trovano le matrici per restare nella storia, quella che scorre, segreta, sotto la superficie dei disastri. Uno splendido viaggio e una splendida curatela, quella di Antonella Francini, che lavora gomito a gomito con Graham in una traduzione/riscrittura tutta italiana.
Rossella Pretto