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Officina di Scrittura 4

  • Immagine del redattore: Rossella Pretto
    Rossella Pretto
  • 21 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

Sono partita raccontandovi qualcosa di Tennessee Williams per approcciarmi al nuovo romanzo in

formazione.

Perché?

Ma perché uno dei personaggi, come vi ho fatto balenare qua e là, emigrando dalla pièce di Un tram che si chiama Desiderio è venuto a installarsi tra i miei pensieri, nelle vene, sotto pelle, inaggirabile. Ed è così che ho dovuto dargli ascolto.

Stavolta condividerò l’incipit del romanzo dove già balzano all’occhio alcune cose. Ad esempio che c’è una voce narrante che ne sa parecchie. Una donna. E poi fa capolino proprio Blanche Dubois, la

protagonista di Williams, senza nascondimenti e spudorata. Ma forse non è proprio lei, lo è ma pure no. Le due condividono l’iniziale del nome. Brenda da Blanche. C’è poi un ragazzo di cui si dirà

dopo, più in là possibile, e tante altre donne, come Mary Shelley.

Perché?

Ma perché non c’è origine stabile al ventaglio delle nostre identità, quella immaginata certa, pietra

inscalfibile. E no, io non ci credo. Siamo moltitudini che attingono dal pozzo dell’umanità tutta.

E allora leggiamo:

«Vi è un apparente senso di fine quando si chiude un cerchio.

Un senso di fine apparente che si affianca al moto inesausto del ritorno.

In ossequio alla legge della fonte, ho ripiegato verso le contrade dell’infanzia venendo ad accamparmi in canonica con l’intenzione di espiare quanto commesso sotto l’effetto di una droga potente chiamata desiderio: agito in una pulsione gelosa, seducente come l’odore di carogna per il famelico; insaziabile com’è la forza primordiale e fondante dell’umano: vita nuda che si attiva e si slancia verso fuori, anelando, chiedendosi sensata in un universo di codici riemersi dalla camera oscura di un inconscio bestiale; e rimosso, un desiderio poi rimosso perché fatale. Posseduta e abbandonata, ho lasciato che trascinasse via con sé le persone amate, appesa alle risacche d’autunno per un tempo che mi pare intramontabile, l’angoscia lieve che mi appesantisce il respiro mentre mi alzo sulla testa il cappuccio e vado avanti a traversare un Nordest cortese quanto il killer che ti uccide con lentezza. È qui che ho purgato la forza della vita inchiodandola agli umori cittadini, snervati tra ville di pretesa nobiltà e cancrene di periferie industriali. Qui dove l’aria preannuncia atmosfere solforiche e inverni di scontenti, predice il ghiaccio che si insinua nelle cose, tra la gente, profetizza i bianchi, i rami contro il cielo di latte e la nebbia, quel sottile strato d’acqua che svapora rendendo tutti un po’ estranei, meno loquaci e più ritirati, in un sorriso che si congela sulla faccia. E ancora qui, dove mi azzardo a infilare i passi, uno dopo l’altro, in una delle mie fughe serali, poco meno di un secolo e mezzo fa, per ironia della sorte, si inaugurava l’elettricità che fece brillare il gran teatro Eretenio dello sfolgorio di sessanta lampadine.

Ci passo accanto e ricordo, ripetendola.

Ripeto cosa?

Una battuta perché non muoia.

C’è un tale, tale caos nel mondo… Grazie, di essere così buono. Ho bisogno di bontà adesso.

E così sono tornata, dopo pellegrinaggi e fughe sempre più astute, a guardare le ombre che si agitano su quel palcoscenico, a dire del teatro, della tragedia replicatasi, sera dopo sera, sullo schermo bianco dei miei anni. Sono venuta a guardare in faccia le colpe, a mondarle, se possibile, nelle acque del fiume erboso che si perde tra i palazzi specchiando l’astronave verdazzurra della Basilica palladiana, pronta a dare sepoltura al passato - una cerimonia a tratti impossibile, soprattutto per chi è sottomesso all'immortalità di un copione che consuma i nervi: una donna che continua a trascinarsi tra la gente, sola condizione per esistere, inizio e indizio di vita eterna, e volta dopo volta scende dalle colonne bianche del suo palazzotto e si arrende alla vita che consuma, alla vita che vìola e calpesta l’armonia di un mondo perfetto per farsi carne e piume dannate. È così che Blanche Dubois approda a New Orleans - polvere, rifiuti e mosche tra le note dei suonatori che strimpellano l’anima agli angoli delle strade, bianchi o neri che siano -, arriva fino a lì a ormeggiare il suo dramma, una valigetta timida al seguito e il pianto in agguato.

A tratti vaghi sentori di banane e di caffè, par di respirare il fiato caldo del fiume che scorre bruno dietro i depositi della riva.

Scende da un tram che si chiama Desiderio per prenderne uno di nome Cimitero che la conduce ai Campi Elisi. Esattamente come la storia che mi ha imposto di tornare, ma ad altri lidi - assai diversi, lidi riparati - e guardare da finestre che spiano cittadine di provincia, le strade che s’incuneano, strette, tra i bei palazzi e sbucano in piazze signorili, alle porte delle cattedrali del potere religioso o civile: qui, dove sono tornata per mettere distanza: da Blanche, creatura di carta ma irresistibile, e dall’amica che ho perso. E da lui -da te, ragazzo, di cui dirò solo quando avrò terminato di raccontare di un’altra donna di cui ancora non dovrei sapere nulla, ma tutto nasce all’istante, sappiatelo, la causa e l’effetto, e dunque anche Brenda: è qui, dentro me, già con le sue ossessioni, gli accavallamenti e le fatalità, in compagnia di una carovana di altre donne -Mary Shelley tra loro -, tutte simili e difformi. Brenda è qui, in queste righe, insieme a te, ragazzo, di cui parlerò dopo, il più tardi possibile, te, conosciuto quando ero lontana a fare il mio apprendistato teatrale, quando manipolavo corpi vivi che si facevano infiltrare dalle storie altrui. E li guidavo, quei corpi, amandoli, cucendogli addosso i destini. Li ho incontrati tutti in una stanzetta sottoterra, dove con Tennessee Williams si credeva di fare il teatro, ma già si sapeva che la vita ne sarebbe uscita interrotta. La sua storia, quella di Blanche e di tutti noi, mi si è inoculata nelle cellule, debordando in quelle di lui che si è schiantato e mi ha costretto alla ruota eterna, a riattivarla e perderla nella nebbia che si appiccica ai muri e ai portoni di questa cittadina ordinata e composta.

In apparenza, ordinata e composta». Rossella Pretto

 
 
 

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